30 gennaio 2007

E l’imam disse in moschea: potete picchiare le mogli

«Le donne non hanno l’anima». Moustapha a casa segue la «lezione», Amal lo denuncia
di Magdi Allam
Il sermone dell’imam: «Giusto picchiare le donne sono senza anima» Verona, dopo la predica Amal massacrata dal marito Lo ha denunciato: ora vive barricata in casa con i figli
«Sentito che ci ha detto l’imam? Che dobbiamo picchiare la moglie! Perché le donne sono stupide, sono come le pecore che devono essere governate da un pastore. Voi uomini avete ragione di picchiarle, perché è l’Islam che lo dice. Il Corano lo ordina». Era il 26 agosto 2005, al termine della preghiera del tramonto, il predicatore d’odio islamico Wagdy Ghoneim parlò con i fedeli raccolti nella moschea di Verona in via Biondani, uno stabile dell’Ucoii (Unione delle comunità e organizzazioni islamiche in Italia). Leader dei Fratelli Musulmani, incarcerato in Egitto, espulso dagli Stati Uniti e dal Canada per apologia di terrorismo, Ghoneim riuscì ad ottenere un visto d’ingresso in Italia, su invito dell’Ucoii, tenendo quattro incontri a Bologna, Verona, Padova e Sesto San Giovanni. Tra gli intervenuti ad ascoltarlo nel capoluogo scaligero c’era il marocchino Moustapha Ben Har, 46 anni, un uomo violento, che aveva costretto la moglie a suon di botte ad abortire due volte e l’aveva spedita tre volte al pronto soccorso con la faccia rotta; che era stato denunciato per l’accoltellamento di un connazionale che risiede nello stesso stabile; che infine si è ritrovato disoccupato per i continui litigi sul posto di lavoro. Una volta rientrato a casa, Moustapha, forte di una legittimazione islamica al comportamento brutale, rivolse minacce pesanti ad Amal El Bourfai, 33 anni, conosciuta e sposata a Casablanca: «L’imam ci ha detto che le donne sono senza anima. Sono create solo per fare bambini, sbrigare le faccende domestiche e soddisfare i piaceri del marito. Le mogli non possono alzare la voce. Chi comanda è solo il marito. Se la moglie sbaglia, è normale punirla. Questo è l’insegnamento del profeta». Quella sera Amal ebbe veramente paura. Strinse a sé i due figlioletti, Aiman, oggi di 4 anni, ed Elias, che a maggio ne compierà 3. Ripensò ai primi giorni di matrimonio, quando Moustapha si rivolgeva a lei con dolcezza. E come all’improvviso, due mesi dopo il suo arrivo in Italia nel 2000, lui cominciò a picchiarla perché lei non era ancora rimasta incinta: «Sei come una terra secca, non dai il frutto!». Amal si sentiva in colpa e sopportava le botte. Fino a quando dalle analisi non emerse che il problema era del marito. Lui si sottopose a una terapia ormonale che ebbe successo. Ma in realtà lui non amava i figli. Per ben due volte la sua furia criminale costrinse la moglie ad abortire per le percosse al ventre. Anche dopo la nascita di Aiman, lui l’aggredì stendendola a terra e saltandole sul ventre. Era incinta di quattro mesi, sanguinava, andò in ospedale e riuscì a portare avanti la gravidanza fino alla nascita di Elias. Poi Amal è stata costretta ad abortire per la terza volta in ospedale, perché lui non voleva più figli: «Non ho i soldi per mantenerli». Di fatto è solo lei a lavorare, come operaia in un’azienda ortofrutticola, con un compenso tra i 600 e i 700 euro. Ben poco per quattro persone. E, come se non bastasse, regolarmente lui le sequestrava i soldi per andare con prostitute. Si è ripetuto lo scorso 19 gennaio, il giorno dopo aver ritirato la busta paga. Quando lei si è ribellata, lui l’ha riempita di botte, le ha spaccato due denti e fatto l’occhio nero, costringendola a tornare al pronto soccorso. Perfino quando decideva di fare l’amore con lei, prima la picchiava per costringerla a seguirlo a letto. Per tre volte lei ha sporto denuncia e poi l’ha ritirata: «Se non lo fai, appena torni a casa non troverai più i bambini», la minacciava ripetutamente. Amal si sente impotente perché Moustapha le ha sottratto tutti i documenti: il passaporto, il permesso di soggiorno, la tessera sanitaria e il codice fiscale. Lei dipende da lui in tutto, perché formalmente risiede in Italia per ricongiungimento familiare. La svolta è avvenuta con la denuncia dopo il più recente ricovero al pronto soccorso, denuncia che Amal non intende più ritirare. Lui, per vendetta, ha deciso di scappare in Marocco portandosi via i figlioletti. Ha già spedito ai familiari a Casablanca, su un pullman che parte da Verona, i suoi bagagli. Da allora Amal si è barricata in casa con i figli. Ha chiesto aiuto al centro di assistenza sociale di San Giovanni Lupatoto, il comune di residenza in provincia di Verona, sentendosi rispondere che se avesse voluto usufruire di una struttura di accoglienza, avrebbe dovuto versare 95 euro al giorno. Ieri è tornata in tribunale chiedendo, tramite il suo avvocato, Rosanna Credendino, un provvedimento urgente di allontanamento di Moustapha dall’abitazione. Lunedì andrà in questura per chiedere il divieto di allontanamento dal territorio nazionale del marito e dei figli. Questa è la drammatica storia di una «madre coraggio», che lotta con tutte le sue forze per rimanere in Italia con i due figlioletti, e di un marito violento che ha già presentato richiesta per ottenere la cittadinanza italiana, essendo residente dal 1989. Che immagina di comportarsi in modo islamicamente corretto in virtù dell’aberrante predicazione d’odio dei Fratelli Musulmani a cui si rifanno gli aderenti all’Ucoii. Basta leggere il commento di Hamza Roberto Piccardo nel Corano a cura dell’Ucoii, il più diffuso nelle moschee d’Italia, del versetto IV, 34: «Si può ben capire perché il Corano fornisca al marito gli strumenti per fronteggiare l’insubordinazione della moglie prima di arrivare all’estremo rimedio del divorzio: rimprovero, esclusione dall’affettività e dal rapporto coniugale, punizione fisica. In proposito di quest’ultima si noti che la Sunna dell’Inviato l’ha sconsigliata con fermezza e, in caso estremo, l’ha permessa a condizione di risparmiare il volto e che i colpi vengano inferti con un fazzoletto o con il siwak (il bastoncino che si usa per la pulizia dei denti)». Questo dettaglio tecnico, sul modo islamicamente corretto di picchiare le mogli, deve essere sfuggito a Moustapha. E a migliaia di mariti violenti che in Italia invocano il Corano per brutalizzare le loro donne. Questo è l’appello di Amal: «Aiutatemi a restare a casa mia con i miei due bambini, aiutatemi ad allontanare il marito violento! Voglio vivere in Italia da donna libera e voglio che i miei figli vi crescano da persone libere!».
Corriere della sera del 26 gennaio 2007

Armeni, processo ai negazionisti

Da oggi, per la prima volta in Italia, un tribunale dovrà procedere contro chi tace sul genocidio. Alla sbarra un testo Utet allegato a «Repubblica» che offre solo la versione turca
di Paolo Lambruschi
Gli editori si difendono invocando la libertà di parola e sostenendo che la divulgazione non è obbligata al rigore storiografico. Alla Corte il compito di stabilire se esiste qualche limite ai diritti di espressione
Prosegue oggi, con l'udienza di comparizione personale delle parti davanti al Tribunale di Torino, una causa senza precedenti in Italia. L'Unione degli armeni d'Italia, unitamente alla Fondazione , e 82 armeni hanno avviato un'azione legale per difendere la propria identità personale, che ritengono ferita dalla pubblicazione di una collana storica allegata al quotidiano La Repubblica, la quale ha ignorato il Metz Yeghern, il grande male dimenticato dal mondo. Così viene chiamato il primo genocidio del Novecento, perpetrato dai turchi, i quali deportarono e sterminarono un milione e mezzo di armeni in particolare tra il 1915 e il 1917. Purtroppo nel «secolo breve» la pulizia etnica dei territori e lo sterminio di massa sono poi divenuti un'arma usata da molti eserciti contro coorti di civili inermi. Basta ricordare la Shoah e, nemmeno quidici anni fa, i fatti di Bosnia e Ruanda. Tutti questi eventi furono ispirati proprio dalla tragedia avvenuta nei territori ottomani tra Anatolia, Cilicia e Siria durante la Grande guerra. Hitler, davanti alla titubanza dei suoi generali ad invadere la Polonia disse: «Chi si ricorda oggi degli armeni?»
Il processo è più che mai attuale. La Turchia, candidata ad entrare nella Ue, non ha mai affrontato la questione, anzi parlarne è espressamente vietato dall'articolo 301 del codice penale turco. È stato perseguitato perfino il Nobel per la letteratura Orhan Pamuk e altri storici critici col governo. E chi si ostina a tenerne viva la memoria rischia la pelle, come dimostra il recente omicidio a Istanbul del giornalista di origine armena Hrant Dink, ucciso da un giovane ultrà nazionalista venuto - forse non è una coincidenza - dalla stessa città dove venne assassinato don Andrea Santoro. La condanna dell'omicidio da parte dell'opinione pubblica e delle autorità è stata unanime, ai funerali di Dink ha partecipato la nazione intera. Ma il termine «genocidio» riferito al popolo armeno rimane un tabù sul Bosforo.
Tornia mo nell'aula del Tribunale di Torino. Come ci si è arrivati? Davanti ai magistrati, come detto, compariranno l'Unione armeni d'Italia, la fondazione «Serapian» e una rappresentanza degli 82 cittadini italiani di origine armena che chiedono in sostanza una riparazione culturale. Sostengono che passare sotto silenzio il genocidio della loro gente, sulla cui memoria si è costruita un'identità collettiva, equivale a negare l'esistenza di questa comunità. Dall'altra parte l'editoriale L'Espresso, editore de La Repubblica, la Utet, la quale realizzò nel 2005 la collana «La storia» per conto del quotidiano edito da Carlo De Benedetti, e De Agostini. Nel capitolo che parla del Medio Oriente tra il 1915 e il 1917 non v'è traccia del genocidio. Secondo gli armeni, il testo accoglie solo le tesi e le menzogne diffuse dalla propaganda turca e basate su due capisaldi: i morti non furono più di trecentomila e lo sterminio non venne pianificato. Il volume, che sintetizza le pagine dello studioso negazionista americano Stanford Shaw, sostiene infatti che decine di migliaia di persone morirono di stenti durante la deportazione, vittime di circostanze tragiche e non di un disegno preciso. Certo, si ammette che, al tramonto dell'Impero ottomano i Turchi, guidati dai nazionalisti, vollero impadronirsi delle terre armene per creare un grande Stato turcofono fino al Caucaso. Perciò attuarono politiche ostili alle minoranze cristiane. Ma, nel 1915, secondo la ricostruzione della «Storia», parte degli armeni si alleò con i russi e questo provocò l'escalation delle deportazioni dei «traditori». Insomma, offre una serie di giustificazioni del massacro che però non viene definito genocidio. Nessun accenno a interpretazioni diverse.
In Europa non è consentito - giustamente - mettere in discussione l'Olocausto. I tentativi revisionistici, da ultimo quello operato dal presidente iraniano Ahmadinejad, vengono accolti con disprezzo. Riteniamo come minimo poco attendibili gl i accademici che minimizzano il numero di ebrei morti nei lager o che negano l'esistenza dei campi. Allora perché usare un metro diverso con gli armeni? Anche se la mattanza è stata compiuta dai carnefici con mezzi diversi rispetto all'Olocausto, la sostanza non cambia: è sempre genocidio.
Il giudice non è uno storico. Da una parte si troverà di fronte le ragioni di chi chiede il rispetto della memoria e dell'identità. Viceversa, gli editori oppongono il diritto più classico dell'Occidente, la libertà illimitata di espressione. Più discutibile l'altra argomentazione: in sostanza una collana divulgativa non è obbligata ad adottare lo stesso rigore di un testo storiografico. Insomma, il grande pubblico che paga un libro pochi euro si deve accontentare delle mezze verità.
La sentenza potrebbe essere rivoluzionaria. Infatti la corte deve stabilire dove finisce la libertà di espressione individuale. Il magistrato dovrà chiarire se un intellettuale in Italia può dire ciò che vuole arrivando a negare la verità dei fatti. In Francia, nel 1993, in una causa analoga contro lo studioso Bernard Lewis divenuto negazionista, la Corte diede ragione agli armeni affermando che la libertà di parola e pensiero dello storico non può prescindere dagli accadimenti e dal metodo scientifico perché può ledere la dignità altrui. I transalpini addirittura hanno approvato una legge che vieta di negare l'Olocausto e il Metz Yeghern.
La Chiesa cattolica è sempre stata accanto agli armeni. Papa Benedetto XV, durante la Prima guerra mondiale, fu l'unico a levare la sua voce in difesa di quel popolo. Nel 2001 Giovanni Paolo II si recò in Armenia e a Erevan, la capitale, a pregare per i morti del genocidio. Ma altri elementi indicano un cambiamento di clima. L'Occidente, che tacque a lungo perché vedeva nella Turchia un baluardo contro il neonato colosso sovietico, ha scelto da che parte stare da oltre vent'anni. La commissione per i diritti umani dell'Onu ha infatti riconosciuto il genocidio de l popolo armeno. Sulla stessa linea il Parlamento europeo, che ha incluso la questione tra quelle che Ankara deve mettere in agenda se vuole aderire alla Ue. I Parlamenti di molti Stati, incluso il nostro e quello francese, hanno riconosciuto il genocidio. Così come molti consigli regionali e i consigli comunali delle maggiori città italiane. Aspettiamo il verdetto della giustizia italiana cui, in attesa di poter affermare la verità sui libri, gli armeni hanno fatto ricorso per colmare un buco nel quale da decenni sono precipitate un milione e mezzo di vittime dimenticate. Riconoscere il grande male significa anche togliere dall'oblio le vittime di tutti i genocidi e ridar loro voce. E non rendere vana l'ultima morte provocata da un odio antico, quella di Hrant Dink.
Oggi più che mai «bisogna far parlare i silenzi della storia, queste terribili pause sospensive, quando non dicono più nulla, e che sono appunto i suoi accenti più tragici» (Jules Michelet, L'heroisme de l'esprit).
«Avvenire» del 30 gennaio 2007

Troppo formalismo, la letteratura muore

Il j’accuse del critico Todorov: fra i teorici e nelle scuole prevale una concezione che penalizza il contenuto delle opere
di Daniele Zappalà
Strutturalismo addio: il grande pensatore francese fa autocritica e giudica severamente accademici e insegnanti. «Gli studenti sbadigliano ormai davanti ai testi più toccanti, la cui profondità viene oscurata. E s’impedisce al lettore di interrogarsi e acquisire uno sguardo sul mondo»
«Il lettore cerca nelle opere quanto può dar senso alla sua esistenza. Ed è lui che ha ragione». Con la saggezza dell'età matura, Tzvetan Todorov è passato risolutamente dalla parte del lettore, allontanandosi non poco dalla sponda spesso così sopraelevata ed ermetica della critica di stampo accademico. Proprio lui che, all'inizio di un eclettico e personalissimo percorso intellettuale, aveva scandagliato l'universo della teoria letteraria salendo sul treno alla moda dello strutturalismo e del formalismo. Lo stesso convoglio, saturo di concetti e talora arido di autentico succo, che oggi il Todorov maturo ripudia energicamente in un piccolo e appassionato saggio - simile, a tratti, a un'intima confessione, con precisi riferimenti autobiografici - appena apparso in Francia col titolo eloquente di La littérature en péril («La letteratura in pericolo», Flammarion).
Se il lettore è in fondo il vero sovrano della Repubblica delle Lettere, spiega Todorov adottando una prospettiva umanista, è perché da sempre la grande letteratura si è rivolta al proprio pubblico allo scopo di instaurare un dialogo più o meno implicito sul senso - dunque, letteralmente, anche la direzione - di un'epoca. Gli scrittori da salvare, secondo Todorov, non hanno dunque mai fatto astrazione dei sentimenti della gente comune, dei dibattiti e delle lacerazioni del proprio presente, della percezione concreta delle cose e delle dispute inevitabili che essa suscita. E la proverbiale reclusione dei letterati nella torre d'avorio equivale alla morte di quell'interazione con l'universo dei lettori che è la forza stessa della letteratura.
Eppure, constata con una certa amarezza l'intellettuale di origine bulgara e poi francese d'adozione, «una concezione striminzita della letteratura, che la separa dal mondo nel quale si vive, si è imposta nell'insegnamento, nella critica e persino presso numerosi scrittori». L'attenzione talora ossessiva verso la forma, i codici linguistici, i regi stri, i generi o le cosiddette "funzioni" letterarie care alla narratologia strutturalista, hanno finito spesso per ammorbare quel dialogo fra opera e lettore che dà sangue e linfa alla migliore letteratura di ogni epoca. A scuola, osserva quasi sgomento Todorov, gli studenti sbadigliano ormai anche davanti ai testi più toccanti. E questo in un contesto che ha visto la fatale trilogia «formalismo, nichilismo, solipsismo» propagarsi come un virus dall'originario focolaio teorico-accademico, contagiando vieppiù il mondo dell'insegnamento, la stessa creazione letteraria e in ultimo - l'autentico dramma -, l'immagine stessa che abbiamo della letteratura.
Durante le varie tappe dell'odierna educazione alle opere letterarie, «non si apprende ciò di cui parlano le opere, ma ciò di cui parlano i critici». Oscurando così, innanzitutto, proprio i testi potenzialmente più capaci di puntare un fascio di luce sull'uomo e di aiutare così il lettore a vivere, a conoscersi, a interrogarsi, ad acquisire uno sguardo avido sul mondo.
Per Todorov, la letteratura si trova oggi in effetti in uno stato di pericolo, ma ciò non ha nulla a che vedere col sempiterno annuncio della "morte del romanzo" distillato a dosi periodiche da tanti zelanti analisti ed esperti. In effetti, per il saggista francese, verdi praterie possono attendere ancora gli scrittori e i lettori, se saranno capaci di svincolarsi dagli angusti recinti che un certo Novecento intellettuale ha amato affastellare ad oltranza. Con grande compiacimento e spesso ben poco sentimento.
Certi passaggi del saggio di Todorov sono stati criticati in Francia per la "nostalgia" che sembrano sprigionare. E c'è anche chi ha sottolineato che, a differenza di quanto sembra credere il saggista, gli odierni lettori sono spesso più vitali e reattivi di quelli di tante generazioni passate. Ma le critiche si sono perlopiù arrestate al tentativo di diagnosi di Todorov. Quanto alla prognosi riservata emessa dall'intellettuale sulla vital ità del "fatto letterario" nei prossimi decenni, molte voci hanno pienamente concordato. Ricordando però che la letteratura ha in ogni tempo saputo sorprendere anche i suoi più sinceri ed afflitti esecutori testamentari.
«Avvenire» del 25 gennaio 2007

I rischi sottilissimi di una banale pornografia

Aggressività, sopraffazione, bullismo
di Giacomo Samek Lodovici
Molti si interrogano sulle ragioni dei fenomeni di bullismo nelle scuole, sulle prevaricazioni nei confronti di docenti e compagni, su certe violenze sessuali ad opera di minorenni, o su quegli studenti che scattano fotografie e riprendono filmati delle proprie nudità e della proprie performances sessuali, che le inviano agli amici o che le vendono, che compiono atti sessuali in classe.
Certamente le cause sono molteplici, ma si trascura quasi completamente di dire che una delle principali (anche se non l'unica) è la straripante pornografia.
Siamo continuamente bombardati da immagini oscene e da riferimenti sessuali, persino nei cartoni animati, e la pornografia è imbandita con lustrini e fiocchetti, in confezioni patinate. I più ne minimizzano l'impatto, o addirittura la giustificano e la celebrano, mentre bisogna energicamente denunciarne gli effetti perversi.
In primo luogo, la pornografia determina in chi la consuma un comportamento complessivo di mercificazione degli altri, la loro riduzione a cose, ad oggetti di godimento da dominare e possedere. L'altro viene deprivato della sua dignità di persona.
In secondo luogo, può portare all'emulazione: per esempio l'esibizione del proprio corpo da parte di quegli studenti di cui hanno parlato i giornali.
In terzo luogo, può stimolare comportamenti aggressivi, in ambito sessuale (un gruppo di minorenni che ha stuprato una coetanea aveva visto delle sequenze simili in un film), ma non solo.
Infatti, nel consumatore di pornografia è facile che la regola di vita prevalente diventi il principio di piacere, che prescrive la ricerca del godimento e della soddisfazione immediata. L'uomo sensuale non è un essere relazionale; al contrario, è un essere conflittuale, competitivo ed agonista.
Anche Freud, che era tutt'altro che un clericale, diceva che l'uomo sensuale intrattiene relazioni solo perché possono essergli utili: dunque organizza la sua condotta verso i suoi simili improntandola al più puro utilitarismo. Così e gli diventa progressivamente incapace di comportamenti altruistici e generosi, come l'amore o l'amicizia, e le sue espressioni di apparente altruismo nascondono sempre delle motivazioni autointeressate, dei calcoli utilitaristici, dei secondi fini. Egli, di conseguenza, suddivide la società in due categorie: da una parte coloro che possono soddisfare la propria libido, e che di conseguenza sono utili e vantaggiosi, dall'altra coloro che costituiscono un ostacolo al godimento, e che dunque sono nemici, o perlomeno risultano indifferenti.
Inoltre, come ha scritto Paul Ricoeur, l'abolizione dei tabù sessuali ha prodotto un effetto ignoto alla generazione freudiana: tutto ciò che rende facile il consumo sessuale ne favorisce anche l'annullamento di significato e di valore, perciò la sessualità diventa inevitabilmente deludente e sempre più ossessiva.
Infine, l'uomo in cui spadroneggia la pulsione sessuale, dice Freud, è connotato da "crudele aggressività" è come "una bestia selvaggia, alla quale il rispetto della propria specie è estraneo". Infatti, quando la pulsione sessuale governa un soggetto, lo dirige incessantemente alla ricerca di nuove soddisfazioni. Ma il soggetto non sempre riesce a raggiungere i suoi obbiettivi e talvolta incontra degli ostacoli alla propria ricerca. In questo caso la libido diventa violenta, diventa impulso di aggressività, che si esprime nell'odio e nella distruzione. Non è un caso che uno scrittore di testi osceni come de Sade abbia finito per giustificare persino l'omicidio.
«Avvenire» del 30 gennaio 2007

29 gennaio 2007

Vip & solidarietà; i testimonial del bene

Quando le star sposano una causa riescono a imporla all’attenzione rapidamente. La notorietà può avere una funzione nobile: lo affermano associazioni come Unicef Italia e Transfair. Ma c’è anche chi non è mai ricorso alle celebrità. Emergency, pur con l’aiuto di alcuni personaggi, ha scelto di affidarsi ai volontari
di Chiara Zappa
Antonio Sclavi: «Per noi gli "ambasciatori" sono una risorsa enorme. L'immagine oggi è essenziale: certe cose dette da persone note hanno una forza diversa che se le dicesse un illustre sconosciuto»
Paolo Pastore: «Le figure celebri che hanno prestato il loro volto ci hanno aiutato a raggiungere il target delle mamme, mentre la v-jay di Mtv ci ha fatto arrivare ai giovani, una fascia che ci era preclusa»
Decine di enti e associazioni, qualche anno fa, misero in atto campagne globali per sostenere l'abolizione del debito estero dei Paesi poveri. Ripensando all'argomento oggi, tutto ciò che probabilmente ricordiamo sono gli appelli accorati del carismatico cantante degli U2, Bono Vox. Un fenomeno simile a quello per cui oggi, sentendo parlare delle violenze legate all'estrazione dei diamanti in Africa, automaticamente associamo al dramma il volto angelico di Leonardo Di Caprio. È un fatto: quando le star sposano una causa, riescono rapidamente a farla uscire dall'ombra in cui magari era stata relegata per decenni. Ecco perché, in misura crescente, associazioni e ong impegnate nei settori più disparati del grande mondo umanitario scelgono di legare le proprie iniziative a volti noti dello spettacolo o dello sport. I testimonial della carità spopolano, tra le polemiche di chi dietro alla generosità del vip di turno vede accurate operazioni d'immagine studiate a tavolino e chi sostiene la necessità ormai vitale, nella società della comunicazione, di sfruttare la notorietà di pochi per toccare il cuore - e le tasche - di tanti.
«Per noi gli "ambasciatori" sono una risorsa enorme", spiega Antonio Sclavi, presidente di Unicef Italia, che da sempre si avvale di testimonial celebri per dare eco alle proprie campagne in difesa dell'infanzia. Tra i volti italiani dell'organizzazione personaggi come Milly Carlucci o Lino Banfi, Francesco Totti, Roberto Bolle e molti altri. «Il nostro obiettivo è far conoscere al grande pubblico le emergenze che riguardano i bambini in tutto il mondo, e certe cose dette da persone note all'immaginario collettivo hanno di fatto un'influenza molto maggiore che non se fossero raccontate da un semi-sconosciuto come potrei essere io. Oggi l'immagine è determinante». Naturalmente, precisa Sclavi, «i nostri ambasciatori sono scelti con cura: io li nomino formalmente per un incarico che dura due anni, rinnovabile, e che prevede il rispetto di una serie di impegni precisi». Con tanto di contratto da firmare. Ma per i vip dal cuore buono non si prevedono compensi? «Assolutamente no. Per noi non ci sono spese. Anche i grandi eventi con la presenza dei nostri ambasciatori, come ad esempio quello organizzato da Roberto Bolle per il prossimo 10 febbraio a Roma, vengono realizzati a condizione che siano totalmente sponsorizzati da grandi aziende, o enti pubblici». E visto che, nel caso specifico, il prezzo dei biglietti per il "Gala for Unicef" va dai 40 ai 120 euro, l'organizzazione conta di portare a casa un bel gruzzoletto.
Anche Paolo Pastore, direttore di Transfair, marchio di garanzia dei prodotti equosolidali in Italia, per sottolineare l'importanza dei testimonial per i professionisti della solidarietà porta esempi concreti. «Nel 2005 i consumi dei nostri prodotti, in un mercato in stagnazione, sono aumentati del 28% e per il 2006 contiamo di raggiungere lo stesso risultato. Non a caso, il traino delle vendite coincide con le due edizioni di "Io faccio la spesa giusta", la settimana dedicata appunto alla promozione del commercio equo, per le quali ci siamo avvalsi di una serie di personaggi noti, da Antonella Ruggiero e Damiano Tommasi fino a Massimo Ghini, Amanda Sandrelli ma anche Andrea De Carlo e la conduttrice di Mtv Paola Maugeri». E se «un certo tipo di testimonial ci ha aiutato a intercettare il target delle mamme, proprio la v-jay di Mtv ci ha permesso di arrivare ai giovani, una fascia che prima non raggiungevamo». Anche se qualcuno, all'interno del mondo dei consumatori alternativi, storce il naso. «È vero, c'è chi ci rimprovera di utilizzare gli stessi strumenti del mercato che contestiamo, ma io credo che per i produttori del Sud del mondo la cosa più importante sia che riusciamo a parlare a tantissima gente del fatto che si può produrre rispettando i diritti dei lavoratori e l'ambiente. Diciamo che in questo caso il fine giustifica i mezzi».
Di opinione opposta è Alessandro De Marchi, che si occ upa di promozione e raccolta fondi per il Cisv, ong torinese che, per scelta, non si è mai avvalsa di testimonial ufficiali. «Il Cisv si è imposto un codice etico anche per quanto riguarda la promozione delle proprie attività», spiega De Marchi. «Noi vogliamo che i cittadini ci diano il loro contributo non perché spinti dall'emotività ma per un gesto consapevole, critico e responsabile. Ci rendiamo conto che sensibilizzare è più difficile e dispendioso che raccogliere fondi, ma siamo convinti che se vogliamo cambiare il mondo dobbiamo modificare la mentalità, anche per quanto riguarda il modo di donare: non beneficenza e assistenzialismo ma consapevolezza». E le celebrità non possono sensibilizzare? «Purtroppo spesso i testimonial sono scelti male, perché non incarnano davvero lo spirito dell'associazione e finiscono per trasformarsi in "specchietti per le allodole"». Gli stessi vip, qualche volta, decidono di prendere le distanze dal loro ruolo di "megafoni delle emergenze": è capitato qualche mese fa all'attrice francese Emmenuelle Béart, che ha rinunciato alla sua decennale esperienza di ambasciatrice Unicef dichiarandosi «in collera contro i governi che non mantengono le loro promesse». In altri casi, attori e cantanti decidono di sostenere l'opera di un'associazione stando "dietro le quinte", o comunque senza formalizzare il loro legame con la ong di turno. È il caso, ad esempio, di Moni Ovadia, che ha devoluto l'incasso di alcuni spettacoli ad Emergency. «Ci sono artisti che ospitano il nostro stand nelle hall dei loro show», spiega Simonetta Gola, responsabile della rivista della Ong milanese. «Ma non abbiamo veri testimonial: protagonista delle nostre campagne deve essere il lavoro che facciamo, non il volto di qualche celebrità». Anche senza "uomini immagine", l'anno scorso Emergency ha raccolto donazioni per 14 milioni e mezzo di euro. A riprova che i suoi 4mila volontari sparsi in tutta Italia sono, in fondo, ottimi testimonial.
«Avvenire» del 28 gennaio 2007

Robot: arrivano gli umanoidi

Dalle case agli uffici, sempre più automi svolgono attività di supporto all’uomo e, pur fra sorrisi e incredulità, per la prima volta un documento ufficiale inglese prevede di estendere loro alcuni diritti. Ma davvero le macchine intelligenti possono avere una coscienza?
Di Andrea Lavazza
Un colpo alla tastiera in un momento di rabbia, quando non riuscite a far funzionare il vostro computer, potrebbe costarvi una denuncia per lesioni da parte della macchina. E forse al seggio elettorale (se ancora esisteranno) potremo incrociare l'aspirapolvere del vicino. Scenari futuristici, in cui i robot hanno coscienza e reclamano la parità con i loro proprietari, che hanno suscitato l'ironia del Financial Times, ma che sono scritti nero su bianco in un rapporto commissionato e fatto proprio dal governo britannico. Il dipartimento della Scienza di Blair, guidato da sir David King, ha affidato il «Sigma Scan» a due società di consulenza (Outsights, Ipsos Mori) per cercare di prevedere gli sviluppi di scienza e tecnologia nei prossimi 50 anni, insieme con il loro impatto sulla società e sulla politica. Iniziativa lodevole quella di attrezzarsi su un fronte che in Italia è spesso colpevolmente trascurato, sebbene paia impresa piuttosto velleitaria ipotizzare che cosa accadrà tra mezzo secolo, dato il tumultuoso (e per questo insondabile) progresso della conoscenza. Resta il fatto che per la prima volta, in un documento ufficiale, si parla della possibilità di estendere ai robot diritti e doveri oggi accordati solo agli uomini. Il ragionamento, apparentemente, è semplice e lineare. Facciamo sempre maggiore affidamento su computer e apparecchi elettronici. Macchine più o meno antropomorfe già lavorano in fabbrica, puliscono in casa, operano in ospedale, agiscono sui campi di battaglia... Quando l'intelligenza artificiale farà sì che i robot (qualunque forma fisica abbiano) possano manifestare autoconsapevolezza, oppure migliorarsi o riprodursi autonomamente, allora non è escluso che le macchine reclamino un riconoscimento di diritti, che dovrebbero essere bilanciati da doveri e responsabilità sociali (rispettare le leggi, pagare le tasse, svolgere il servizio militare, votare...). «Ma quando si può parlare di soggetto di cui rispettare in qualche misura l'integrità? - si chiede Riccardo Manzotti, uno dei primi studiosi in Italia di coscienza artificiale -. Sono almeno quattro le caratteristiche che un automa dovrebbe manifestare perché lo si possa prendere in considerazione come depositario di diritti: la capacità di elaborare informazione; l'avere un corpo che si integra con l'ambiente (ciò che distingue un robot da un computer); l'abilità di rispondere agli stimoli esterni in modo duttile; e la produzione di motivazioni proprie all'agire. Di esse, soltanto la prima è oggi realizzata». La ricerca va in tale direzione ma quantificare i tempi non sarebbe serio, conclude il ricercatore dello Iulm, «abbiamo grande potenza di calcolo e di memoria, ci manca però l'architettura software adatta per fare quel salto». Il rapporto britannico è molto ottimista sulle conseguenze di questa possibile rivoluzione: il mondo, a parere degli autori, si arricchirebbe di capacità di lavoro e di intelligenza per la risoluzione creativa di problemi, con il risultato di un miglioramento netto della prosperità e della condizione umana in generale. Nel caso la concessione dello status di soggetti giuridici non venisse dai «padroni», si vaticina una serie di ricorsi alle Alte Corti nazionali perché il riconoscimento venga dato dalla magistratura. Una volta accordati i diritti, lo Stato dovrà accollarsi l'onere di fornire l'assistenza "sociale", consistente in «sostegno al reddito, alloggi e sanità, ovvero riparazioni gratuite». Come un rapporto scientifico che si rispetti, si esplicitano gli indicatori di tendenza utilizzati (gli avanzamenti nel campo dell'intelligenza artificiale), quelli che segnaleranno un avvicinarsi dello scenario finale (le protesi neurali in grado di assicurare un interfacciamento diretto tra cervello e computer, per mezzo del pensiero); gli elementi facilitanti (i massicci investimenti in ricerca per esigenze militari) e quelli vincolanti (una regolamentazione preventiva delle applicazioni della tecnologia, limiti intrinseci d i carattere fisico); i paralleli (la Nasa studia da anni sistemi per l'esplorazione spaziale in grado di autoreplicarsi) e i precedenti (l'emancipazione degli schiavi e il movimento per i diritti degli animali). Ma non sono pochi gli scettici. José M. Galvan, docente alla Pontificia Università della Santa Croce, è convinto che «quanto più la tecnologia sarà perfezionata, tanto più diverrà evidente la differenza tra intelligenza artificiale e intelligenza naturale. Saranno perfezionati robot umanoidi, utili per la cura personale e per la sperimentazione, ma non è detto che sia bene procedere a dotarli di funzioni simboliche superiori. E, in ogni caso, esse saranno sempre una "copia", priva dell'archetipo della moralità. Alla base dello scenario delineato nel Sigma Scan vedo una certa confusione sul concetto di persona, un errore antropologico che rischia di avere conseguenze spiacevoli». Se prendessimo sul serio le previsioni, dovremmo aspettarci che il prossimo dossier sul futuro sia compilato da un robot. E se ipotizzasse la revoca dei diritti agli uomini, considerati esseri inferiori alle macchine di domani?
«Avvenire» del 28 gennaio 2007

Un patto educativo per le nuove generazioni

I giovani e le responsabilità degli adulti
di Edo Patriarca
Da mesi la cronaca ci propone episodi scabrosi che vedono coinvolti gli adolescenti: bullismo, violenze a compagni disabili, sesso raccontato con i video-telefonini. Racconti particolareggiati, interviste ai genitori ma nessun riflessione o presa in carico, neanche un accenno di autocritica. Se il nostro tessuto sociale si sta sfrangiando e si stanno in parte perdendo valori e virtù che costruiscono la "vita buona" di chi è la responsabilità? Forse di coloro che in questi decenni hanno predicato la libertà per la libertà e, per i giovani, una sessualità senza confini e paletti. Non è forse colpa anche di una certa pedagogia pseudoprogressista che ha predicato il valore assoluto della ricerca per la ricerca, del mito dell'autorealizzazione disponibile ad ogni sbocco esistenziale? In nome della libera ricerca personale - giusta e sacrosanta - il mondo adulto si è acconciato a dare voce a tutti i desideri , a non dare regole perchè troppo lesive della libertà, a non offrire valori che vanno scoperti per conto proprio. Questi signori, da sempre accusatori intransigenti di una pedagogia cristiana secondo loro troppo propensa a tarpare le ali ai giovani e ad imporre modelli precostituiti, non fanno autocritica, sono scomparsi nel nulla, letteralmente evaporati. E oggi ne vediamo i risultati: adulti incapaci di accompagnare e orientare i giovani e di offrire una proposta e un progetto di vita su cui confrontarsi per poi costruire il proprio; adulti incapaci di gestire il conflitto e di sanzionare comportamenti cattivi rubando così ai ragazzi persino la possibilità di contestare. L'unica forma di contestazione rimane il consumo, il consumo di tutto, persino del proprio corpo. E il dibattito pubblico si avvolge sul nulla: sui cognomi da assegnare ai figli (ma ci si è mai chiesti se la questione interessasse ai ragazzi?) e sulle unione di fatto, piuttosto che sul sostegno deciso e convinto alla famiglia e alla genitorialità. Si discute di crescita e di competitività: ma questa crescita è possibile solo con un forte investimento educativo verso le nuove generazioni, che non è solo scuola e formazione, ma un patto intergenerazionale per ricostruire un clima impegnato e operoso che contrasti il disarmo educativo della società adulta .Tanti dati, tante indagini sui ragazzi ma nessuna indicazione concreta e di prospettiva: si prende atto della realtà come dato oggettivo senza dare alcun giudizio di valore. E si propongono cure palliative, di contenimento. Se si parla di distretto si dica che non è solo industriale ma anche educativo e formativo; se si parla di famiglia si parli di sostegno alla genitorialità con atti politici concreti. Se si parla di scuola si dichiari una nuova stagione di impegno educativo ai valori e alle virtù: abbiamo bisogno di docenti preparati nelle discipline ma che siano anche esperti di umanità, soprattutto nelle scuola di base. Si è docenti per vocazione, le sanatorie in queste professioni sono deleterie. Si dia valore all'associazionismo familiare, alla sussidiarietà orizzontale che le famiglie già praticano nelle esperienze di aiuto-aiuto organizzato. E si riconosca il valore prezioso della tradizione pedagogica di ispirazione cristiana, profondamente laica e attualissima: un deposito culturale ed esperienziale immenso, una grande risorsa per l'intero sistema educativo del nostro Paese.
«Avvenire» del 28 gennaio 2007

Organi in vendita business mondiale

In Cina gli organi di un condannato a morte possono venire utilizzati se il prigioniero acconsente. L'accusa: uccisioni programmate per rispondere alle esigenze del mercato. Amnesty: ogni anno 10mila esecuzioni con conseguente trapianto
di Nello Scavo
Il campionario ha tariffe variabili: 62 mila dollari per un rene, 15 mila i polmoni, 30 mila una cornea. Tutto compreso: espianto, trasporto, impianto. Quattrini, beninteso, che vanno all'intera «organizzazione», perché i donatori o sono morti (non di rado uccisi apposta) o incassano poche migliaia di euro. Il preventivo però è variabile: dipende dalla disperazione del venditore, dalla cassaforte del compratore, dal costo della logistica (mediatori, chirurghi, cliniche private) e soprattutto da quanto è alto il rischio di finire in galera.
Il consenso del "donatore" non è indispensabile. In Cina sarebbe obbligatorio, se non fosse che i cadaveri dei condannati a morte vengono nascosti perfino ai familiari e nessuno sa se vengono sepolti interi o sezionati. In India la vita di un bambino povero spesso non vale quanto quella di uno a cui è capitata la fortuna di nascere da famiglia ricca, ma con la sventura di una qualche disfunzione. E che importa se per salvare il proprio rampollo è necessario "sopprimere" uno di quei chiassosi bimbi di infima casta. Quello del traffico illegale di organi umani è un viaggio tra i "non so", i forse, le prevedibili omissioni. C'è solo una voce nitida: è "il silenzio degli innocenti".
Il caso Iran. Pochi lo sanno ma quello di Teheran è l'unico governo al mondo ad aver legalizzato e gestito la compravendita di organi umani, in particolare reni. Il "donatore" deve manifestare la propria volontà alle autorità. Una volta raggiunto l'accordo lo Stato riconosce al "venditore" un compenso di circa 1.000 dollari, ma il prezzo dell'organo viene maggiorato delle spese sanitarie che deve pagare il ricevente, che per legge non può essere uno straniero. I ricercatori dell'Hashemi Nejad kidney Hospital di Teheran hanno recentemente sostenuto che il «modello iraniano del trapianto di rene» è un sistema «ben controllato», che ha portato al «totale abbattimento delle liste di attesa». Più volte però l'Associazione mondiale dei Trap ianti ha risposto con sette parole: «Condanniamo qualunque pratica di compravendita degli organi». Si stima che ad oggi oltre 20.000 reni sono stati trapiantati con questa procedura.
Il "suk" asiatico. Notizia di dieci giorni fa: in India la polizia ha arrestato un ricco uomo d'affari, Moninder Singh, ed il suo cameriere, Surendra Kholi. Gli agenti hanno scoperto nella villa di Singh una serie di strumenti chirurgici, tra i quali diversi bisturi. La casa degli orrori era organizzata come una macelleria, con un retrobottega da far perdere il sonno: in un cortile i poliziotti hanno rinvenuto i resti di 17 bambini (11 maschi e 6 femmine) disposti nello stesso modo con cui gli ospedali organizzano lo smaltimento dei rifiuti speciali. Le autorità hanno accertato che i corpicini erano stati sezionati da mano esperta, molti mancavano degli organi interni. Entrambi gli imputati hanno confessato: la maggior parte dei bambini sono stati strangolati. All'appello mancano altri 21 ragazzini della stessa zona, scomparsi negli ultimi tre anni. Interi villaggi dell'India più povera sono diventati come bazar dove trovare "pezzi di ricambio". Arrivano malati dall'Europa, dagli Usa, ma anche dall'India più benestante e sono pronti a pagare in contanti. Nel 1994 la pratica è stata messa fuori legge. In realtà i controlli sono blandi, come dimostra la cronaca. Non lontano, in Pakistan, si vendono oltre 6.500 reni l'anno. In Afghanistan sono in corso indagini su alcuni centri clinici che al tempo dei talebani avrebbero fornito supporto di personale e di attrezzature ai trafficanti di organi.
Ma è la Cina ad essere considerata al vertice anche di questo turpe "business". Una norma del 1984 stabilisce che gli organi dei condannati a morte possono venir utilizzati per il trapianto se il prigioniero da il suo consenso (che certo i carcerieri sanno come ottenere). Tutto deve essere fatto in segretezza. Le esecuzioni verrebbero programm ate proprio per andare incontro alle esigenze del mercato, anche se nelle ultime settimane - considerato il contraccolpo all'immagine internazionale - il governo di Pechino ha ordinato una stretta. Secondo Amnesty International ogni anno sono circa 10 mila le esecuzioni con conseguente espianto.
Misteri in Sudamerica. Da informazioni raccolte dai padri Mercedari, nel 2005 in Colombia sono state "esportate" più di mille cornee in vari paesi del mondo, «per una cifra - è la stima dei Mercedari - pari a un miliardo di dollari». Anche tra i bambini del Brasileci sono vittime di questo mercato. La magistratura carioca è riuscita ad accertare casi di piccoli prima adottati, poi misteriosamente scomparsi: inghiottiti dai "Barbablu" del nostro tempo.
Allarme negli Usa. Neanche gli Stati uniti sfuggono ai "ladri di organi". Un macabro traffico di cadaveri è stato scoperto l'anno scorso: ossa e tessuti illegalmente prelevati negli obitori di Brooklyn venivano "conservati" in un laboratorio di biotecnologie del New Jersey e da qui trasferiti in decine di ospedali americani, dove sono stati impiantati su centinaia di inconsapevoli pazienti. La vicenda, su cui ancora si indaga, ha ramificazioni internazionali perché i resti umani fuorilegge sono stati venduti anche in Canada (in Ontario, British Columbia e Alberta) e potrebbero aver viaggiato fino all'Asia e all'Europa. La procura di Brooklyn e l'ufficio del medico legale di New York negli ultimi mesi hanno esumato cadaveri da cimiteri, accertando che per poter intervenire illegalmente bisognava pagare alle agenzie di pompe funebri dai 500 ai mille dollari. Sotto i ferri era finito perfino Alistair Cooke, l'intellettuale inglese che ogni giorno trasmetteva per la Bbc la sua "Lettera dall'America".
Europa senza «barriere». Recenti indagini sul territorio dell'Unione europea hanno permesso di aggiornare il "borsino" nero: i venditori, in gran parte moldavi o bulgari, vendo no un rene per 1.900-3.800 euro; i compratori se lo fanno impiantare, specie in Turchia, per 100 mila-180 mila euro. In Albania si è sviluppato un importante giro di sfruttamento, mentre in Bulgaria un ospedale di Sofia è accusato di aver coperto un traffico clandestino, in particolare di reni, ceduti da pazienti stranieri per un prezzo di 15 mila dollari e poi impiantati in ricchi malati, provenienti soprattutto dall'estero. I beneficiari si facevano impiantare organi acquistati da russi, ceceni, georgiani e moldavi, fatti passare come parenti, ha confermato il ministero della Sanità. L'ospedale fatturava 15 mila dollari per ogni operazione: non è stato precisato quanto dell'ammontare finisse nelle tasche dei donatori-finti parenti.
Orrore d'Africa.I racconti delle suore di Santa Maria gelano il sangue. Da tempo le religiose denunciano (portando raccapriccianti prove fotografiche) il ritrovamento in Mozambico di cadaveri di bambini senza fegato, pancreas, cuore, occhi, organi sessuali. Le indagini sono lentissime, e ai pochi finiti in carcere è consentito di pagare una cauzione per tornare liberi. Le autorità del Paese hanno ammesso che le sparizioni sono avvenute in particolare nella città di Maputo, ma sul presunto traffico di organi gli inquirenti minimizzano.
«Avvenire» del 28 gennaio 2007

La tv è cattiva maestra solo di chi non la sa usare

di Stefano Zecchi
Chi è la cattiva maestra? Risposta in coro: la televisione. Anche il Pontefice ha usato questa ormai celebre espressione durante un appello ai responsabili di comunicazione televisiva affinché correggano la qualità delle trasmissioni e dei loro messaggi. L’appello è assolutamente condivisibile, mentre il modo di chiamare la televisione cattiva maestra è fuorviante. Incominciamo dalla semplice constatazione che i programmi televisivi poco si preoccupano della qualità e molto invece dell’ascolto. Gli alti ascolti si raggiungono nel modo più facile attraverso risse, insinuazioni pruriginose o aperte volgarità. Questa ormai è diventata una realtà fisiologica, non patologica della televisione: quando dal teleschermo arrivano nelle nostre case modi d’essere e di fare che comunemente non appartengono a persone educate, scatta l’attenzione del pubblico. Fenomeno ormai ampiamente verificato, su cui adesso è inutile soffermarsi per comprendere i motivi.
Ma un’altra semplice constatazione è che in televisione ci sono programmi discreti che distraggono piacevolmente dopo una giornata faticosa, ce ne sono altri in grado di insegnare qualcosa di interessante e alcuni, non poco, deficienti. Generalmente si parla di quelli deficienti perché fanno più clamore e suscitano scandalo. E generalmente sono proprio queste trasmissioni che hanno metodicamente costruito la fama di cattiva maestra della televisione.
Dunque, accodandoci all’appello del Pontefice, si aboliscano queste trasmissioni. Tuttavia è meglio non illudersi ed essere consapevoli che quelle trasmissioni appartengono alla fisiologia televisiva e che, quindi, è praticamente impossibile eliminarle. Allora arriviamo al punto. Sono così diseducative? Certamente costituiscono delle forme di comunicazione di modelli comportamentali che non sono positivi. Recentemente alcuni minorenni hanno abusato sessualmente di una loro coetanea e, interrogati sul motivo che li ha spinti a compiere tali azioni, hanno candidamente risposto che le hanno viste in televisione e che perciò le potevano fare anche loro.
Televisione cattiva maestra? Non dimentichiamo che gli stupri non li ha inventati la televisione, che sono vecchi come il mondo e che, per esempio, proprio il mondo della natura è prodigo di esempi di brutalità e di violenza. Basta pensare a cosa succedeva, e forse succede ancora, nelle campagne lontane dalla civilizzazione, in cui i comportamenti degli animali sono esempi per i comportamenti degli uomini.
Il problema non è allora l’esempio che si riceve da ciò che si vede, ma il modo in cui si forma e si costruisce una persona. Non è la cosa in sé decisiva, ma è decisivo il punto di vista da cui si osserva la cosa. Se la televisione mi trasmette immagini di stupro, o se mi capita di essere un casuale osservatore di uno stupro in qualche sperduta campagna, sarà fondamentale il modo in cui guardo quegli atti, cioè le categorie culturali della mia formazione, i miei valori, i miei riferimenti educativi, perché sono proprio questi che mi consentono di comprendere il senso di ciò che vedo.
Se alcune trasmissioni televisive ci danno l’idea che siamo di fronte ad esempi da imitare, dipende dal fatto che purtroppo nella vita non abbiamo avuto buoni maestri dove ci sarebbero dovuti essere: in famiglia, nella scuola. Se non riusciamo a capire che certi programmi, certe immagini televisive sono di cattivo gusto e volgari, la responsabilità è del nostro punto di osservazione assolutamente ineducato e privo di una formazione idonea ad esercitare un giudizio di valore.
Oggi la brutalità che si può vedere in televisione appartiene alla realtà metropolitana, così come ieri la brutalità della natura era quella che apparteneva alla vita in campagna. Ieri come oggi è fondamentale la correzione educativa della visione, cioè la cultura. Allora anche immagini poco edificanti possono diventare doppiamente educative: sono esempi di ciò che io so non si deve fare, e sono testimonianza dell’idiozia e del cattivo gusto di chi ha deciso di trasmettermi quelle immagini. E in questo caso la televisione diventa un’ottima maestra di ciò che si deve evitare.
«Il Giornale» del 28 gennaio 2007

28 gennaio 2007

Le notizie estenuate

di Massimo Gramellini
Ronaldo al Milan, ufficiale. Ma non lo era anche una settimana fa? E Moretti. Non ci crederete, è il direttore del Torino Film Festival. Lo si ripete da una vita, però adesso è vero, proprio quando questa vicenda ha cominciato a intasarci la cistifellea e non si riesce più a goderne né a biasimarla, perché entrambi gli stati d’animo sono stati ampiamente sperimentati al momento dell’annuncio. L’annuncio, ecco il punto. Il mondo non procede per eventi ma per anticipazioni, che nei rari casi in cui diventano realtà lasciano il posto a un senso indefinito di nausea. La stessa che ci pervade nell’apprendere che in Parlamento si continua a litigare sulla Resistenza e a votare la missione in Afghanistan. Ma non l’avevano già votata prima di Natale? O era Pasqua? Comunque l’avevano votata. O forse avevano soltanto detto che l’avrebbero fatto? Chi se lo ricorda più. Fino al paradosso della riforma virtuale della scuola, la Moratti semicancellata dal governo: non essendo mai diventata operativa, gli studenti non si accorgeranno della sua abolizione come non si erano resi conto della sua esistenza, se non per contestarla, cioè per contestarne l’annuncio.
È un ben strano modo di vivere, che si sfama di aperitivi e arriva sazio alla bistecca. Facile attribuirne la colpa ai mezzi di comunicazione che menerebbero la danza. Ma anch’essi non sono che lo specchio di un malessere che ciascuno può rintracciare dentro di sé. Un rifiuto di percepire la realtà e di soffermarsi sui fatti, preferendo sempre sapere dove andrà Ronaldo, piuttosto che dove sta adesso.
«La Stampa» del 26 gennaio 2007

26 gennaio 2007

Il silenzio degli intellettuali

Nel suo nuovo saggio, «Cancellare le tracce», Pierluigi Battista parte dal caso Grass per raccontare un fenomeno italiano
di Sergio Romano
Le biografie ritoccate nel dopoguerra per nascondere l’adesione al fascismo
Nello scorso agosto, in una Europa indaffarata a celebrare la liturgia delle vacanze, scoppiò il «caso Grass». Mentre stava per andare in libreria una sorta di concettosa memoria autobiografica, il premio Nobel Günter Grass, grande fustigatore dell’anima tedesca e implacabile censore dei peccati commessi dalla sua nazione nel corso del Novecento, raccontò alla Frankfurter Allgemeine Zeitung che nel 1944, all’età di 17 anni, aveva vestito l’uniforme delle SS. La notizia scatenò su tutta la stampa europea e americana una ridda di reazioni indignate, sorrisi ironici, sberleffi polemici, analisi psicologiche e caratteriali. Come altri italiani mi chiesi quanti «casi Grass» vi fossero ancora in Italia, nascosti nelle pieghe della coscienza nazionale. Pierluigi Battista è andato molto al di là di questo semplice quesito e ha scritto in un breve libro uno sferzante ritratto dell’intellighenzia italiana tra fascismo e antifascismo. Mentre il libro di Mirella Serri apparso due anni fa presso Corbaccio (I redenti) era soprattutto un saggio storico sul periodo cruciale fra il 1942 e la fine della guerra, Cancellare le tracce (Rizzoli) ha la passione e il tono vibrante di un’arringa. Occorre anzitutto ricordare che tra Italia e Germania esiste una fondamentale differenza. In Germania il nazismo restò al potere meno di tredici anni, ma trattò gli oppositori con estrema brutalità. Quando non vennero soppressi o rinchiusi nei lager, gli intellettuali emigrarono e andarono a creare, soprattutto negli Stati Uniti, una delle più grandi e feconde diaspore del XX secolo. Il fascismo invece governò l’Italia per 21 anni (la Repubblica sociale è un capitolo a parte, molto diverso dal resto del libro) e fu in buona parte una grande operazione trasformistica. Gli esuli furono relativamente pochi e il resto dell’intellettualità italiana visse nel regime con una larga gamma di coinvolgimenti che vanno dalla fede assoluta nel credo mussoliniano alla menzogna quotidiana passando attraverso modulazioni diverse di opportunismo, rassegnazione, calcolo, ipocrisia. A differenza di quanto accadde in Germania esisteva quindi in Italia nel 1945 una folla di scrittori, docenti, giornalisti, filosofi e artisti che avrebbero dovuto fornire qualche spiegazione su ciò che avevano scritto e fatto negli anni precedenti. Erano intellettuali, vale a dire, almeno in teoria, cultori della verità, dell’onestà, del rigore critico. Come avrebbero potuto continuare a fare il loro mestiere senza rendere conto del modo in cui avevano vissuto e lavorato durante il fascismo? Ma anziché spiegare e argomentare, gli intellettuali italiani, come racconta Battista, hanno trasformato il dibattito sul passato in una pasticciata fiera delle bugie e delle accuse reciproche. Qualcuno negò l’evidenza. Altri retrodatarono la loro conversione antifascista alla fase che precedette l’adozione delle leggi razziali. Altri ancora sostennero, con qualche acrobazia, di essere stati antifascisti nel fascismo. Altri infine reagirono contrattaccando e seppellirono i loro accusatori sotto una valanga di improperi. Il risultato di queste tattiche fu un «tiro al bersaglio», organizzato da quanti erano rimasti fascisti, che accompagnò per parecchi anni la storia della repubblica. Attenzione, non stiamo parlando di personaggi minori e scribacchini modesti. Nel libro di Battista ci sono pagine ora crudeli, ora malinconiche sulle contorsioni di Mario Alicata, Massimo Bontempelli, Carlo Muscetta, Renato Guttuso, Guido Piovene, Alberto Moravia. E nella seconda parte del libro vi è una lunga bibliografia ragionata in cui l’autore ha citato e commentato i testi da cui ha raccolto la sua documentazione. Spero che il lettore non la trascuri. Non ho mai letto note altrettanto interessanti, divertenti e convincenti. Questo libro non è soltanto una spietata cartella clinica della intellighenzia italiana. L’analisi di Battista aiuta a comprendere perché le bugie e le reticenze di tanti intellettuali abbiano impedito all’Italia di scrivere con il necessario distacco la storia del suo Novecento. Se Massimo Bontempelli, Renato Guttuso o Guido Piovene, tanto per fare qualche esempio, ci avessero parlato con franchezza della loro vita sotto il regime, avremmo forse capito più facilmente perché il fascismo sia durato più di vent’anni e abbia saputo conquistare in alcune fasi il consenso di una parte considerevole del Paese. Ma la «demonizzazione del passato», come l’ha definita Aurelio Lepre, ha fatto del Ventennio fascista un fenomeno storico compatto, una specie di monolito del male privo di sfumature e distinzioni. Tutto questo non sarebbe avvenuto, naturalmente, se gli intellettuali bugiardi o reticenti non avessero trovato un efficace alleato nel partito comunista italiano e nel suo leader. Palmiro Togliatti fu al tempo stesso il più liberale dei confessori e il più rigoroso dei padri spirituali. Perdonò con grande liberalità tutti coloro che potevano essere utili al partito, ma pretese da ciascuno di essi contemporaneamente il più totale dei ripudi. Occorreva radicare nella coscienza nazionale la convinzione che il fascismo fosse stato, dal primo all’ultimo giorno della sua storia, il male assoluto. Soltanto così il Pci avrebbe fatto dimenticare le proprie responsabilità e costruito il piedestallo per le proprie vittorie future. Il libro di Battista suggerisce qualche altra domanda. A che cosa servono questi intellettuali? Sono davvero necessari al buon funzionamento di una società moderna? In Gran Bretagna e negli Stati Uniti esistono pochi mostri sacri, amati o detestati (Hobsbawm e Chomsky, per ricordare soltanto due nomi) che non hanno mai contribuito a fare la politica nazionale. In Russia, dove l’intellighenzia è stata custode della coscienza nazionale e ha avuto un ruolo straordinario nella vita del Paese, gli scrittori e gli artisti hanno pagato di persona con grandi crisi introspettive, angosciosi dilemmi e tragiche esistenze. Da noi, dove il senso del peccato e della tragedia non ha mai messo profonde radici nell’anima nazionale, sono molto spesso soltanto funzionari della cultura, disposti a parlare di tutto, a modificare opportunamente le loro idee e a decorare con le loro competenze un partito, un leader, una linea politica, un regime, una istituzione. Sono ambiziosi, ricercano affannosamente il cerchio di luce della notorietà, e hanno esigenze terrene che richiedono prebende, assegni, gettoni. Di qui a divenire servizievoli, se non addirittura servili, il passo è breve. Può darsi che tutto questo avesse un senso negli anni in cui i partiti erano fortemente ideologici e aspiravano a costruire uno Stato etico, capace di dare una risposta a tutte le domande, spirituali e materiali, dei suoi sudditi. Allora, occorre riconoscerlo, gli intellettuali organici servivano a qualcosa. Ma oggi, in una democrazia dell’alternanza dove le ideologie stanno agonizzando e la gamma delle cose possibili, per chiunque governi, si è progressivamente ristretta, a che cosa servono?

Il caso Grass è scoppiato lo scorso agosto quando lo scrittore premio Nobel, icona della sinistra, in un’intervista alla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» per il lancio dell’autobiografico «Sbucciando la cipolla», ha confessato di essersi arruolato volontario nelle SS a 17 anni. La confessione tardiva ha provocato una valanga di reazioni, anche in Italia: perché l’autore del «Tamburo di latta» non ha parlato prima?

Pierluigi Battista (nella foto), vicedirettore del «Corriere della Sera», è autore, tra l’altro, de «La fine dell’innocenza» (Marsilio, 2000), «Il partito degli intellettuali» (Laterza, 2001) e, con Alberto Ronchey, de «Il fattore R» (Rizzoli, 2003). Il suo nuovo libro, «Cancellare le tracce. Il caso Grass e il silenzio degli intellettuali italiani dopo il fascismo» (pp. 194, 18), esce oggi da Rizzoli.
«Corriere della sera» del 24 gennaio 2007

24 gennaio 2007

Sciacalli in posa

di Massimo Gramellini
Non riesco a togliermi dalla testa le facce giulive degli inglesi che depredano il carico della nave insabbiata «Napoli», portandosi via i barili e le Bmw a spinta, senza sensi di colpa e sotto il naso ottusamente complice della polizia. Pensa il cancan se fossero stati dei napoletani a razziare la nave «England». I pirati di terraferma sostengono che la caduta in mare annulli la proprietà privata meglio di un trattato di Marx e che ogni cosa a mollo divenga automaticamente una «res nullius» (quindi se Brad Pitt si butta in acqua, la donna che lo raccoglie se lo può sposare). Bisognerà spiegarlo ai coniugi di Città del Capo che hanno visto alla tele un suddito ben piantato di Elisabetta allontanarsi dalla spiaggia con i loro tappeti persiani sulle spalle.
Di sciacalli sono piene tutte le tragedie, umane e ambientali. La novità è che questi non si sentono sciacalli e non pensano si tratti di una tragedia: di una cuccagna, semmai. Non li sfiora neppure la paura di essere contaminati dalle sostanze tossiche. Figuriamoci quella di essere incriminati come ladri. Si è mai visto un ladro sorridere ai fotografi durante il furto? O firmare moduli prestampati alle autorità, che un giorno potrebbero chiedere indietro la restituzione del maltolto?
Non è solo faccia tosta. E’ la sensazione sempre più universale di impunità, unita al totale disinteresse per le conseguenze dei propri atti e per qualunque cosa diversa da un giro in Bmw possa riservare loro il futuro.
«La Stampa» del 24 gennaio 2007

Divisi su Auschwitz

Dopo la polemica sul negazionismo fra gli storici e il ministro Mastella, qual è il modo migliore di far memoria sulla Shoah?
Di Massimo Giuliani
Pensando al monito di Adorno il ricordo non va banalizzato. Ben venga ogni iniziativa ma con sobrietà, non come moda ma come lezione di pensiero ed educazione morale
È giusto che la politica, e non solo studiosi ed educatori, si preoccupino di difendere la memoria degli offesi, delle vittime e di chi è stato ferito in maniera profonda da eventi storici che hanno una loro sostanziale dimensione politica? La proposta del ministro tedesco della giustizia, la signora Zypries, di creare una legge per quella difesa, è del tutto giustificabile, e in pratica significa dichiarare reato la negazione della Shoah. In Germania oggi questa legge può servire e la maggioranza dei tedeschi può approvare (e d'altronde in altri paesi europei vige lo stesso reato). E si comprende anche perché i rappresentanti dell'Ucei, Unione delle comunità ebraiche italiane, abbiamo dato via libera alla proposta di legge che il ministro guardasigilli Mastella sta preparando per il 27 gennaio. Tuttavia il coro di critiche che si sta levando da parte degli storici professionisti e di molti intellettuali europei - non certo tacciabili di insensibilità culturale o di opportunismo politico - deve essere preso seriamente in considerazione. Ci si deve cioè davvero interrogare se le buone intenzioni e lo scopo di questo disegno di legge contro chi nega l'esistenza della Shoah sia meglio servito, appunto, da una legge e da sanzioni penali (carcere incluso) o se tali strumenti non siano, per dirla con l'appello di quegli stessi storici, «inutili o peggio controproducenti». Tutta la materia merita un surplus di riflessione collettiva per non incorrere nel falso contrasto tra difesa della memoria offesa e libertà di ricerca storica e di espressione. Il caso inglese del negazionista David Irving, che pur avendo pagato con il carcere in Austria il suo «reato» sta diventando un eroe della libertà di parola, deve far riflettere a fondo.
Qual è il modo migliore per fare memoria della Shoah in un'Europa in cui i venti della destra xenofoba e antisemita sono ancora forti? Il modo in cui in Italia si sta celebrando la «giornata della memoria» sta rispondendo agli scopi per cui venne istituita? A queste legittime domande va aggiunta una riflessione sui rischi del fare memoria della Shoah - dal discorso pubblico al tema in classe, dal monumento all'arte, dal museo al concerto - in forme che possono tradire il senso di quel che deve essere ricordato. Il come è già parte integrante del cosa. Chi non ricorda l'ammonimento di Theodor W. Adorno, quando nel 1949 scrisse che «fare poesia dopo Auschwitz sarebbe stato un atto di barbarie». Era il monito di un tedesco ai suoi concittadini, perché comprendessero quale cesura intellettuale fosse stato il nazismo e quali implicazioni radicali comportasse assumersene la responsabilità. Fu letto, più genericamente, come un'estensione del secondo comandamento: non ti farai immagine alcuna delle atrocità sintetizzare nel nome Auschwitz, perché tale evento è stato così sconvolgente che nessuna categoria estetica sarebbe capace di coglierne il senso. È però difficile immaginare un consiglio filosofico e un comando estetico più disatteso e trasgredito di quello adorniano. La sua molteplice, continua smentita venne da subito da intellettuali e artisti come Hans-Magnus Enzensberger, Nelly Sachs (Premio Nobel per la letteratura nel 1967), Paul Celan, Peter Weiss, per non citarne che alcuni famosi e di lingua tedesca; ma fu formulata con la consueta chiarezza e acutezza di giudizio da Primo Levi.
A Giulio Nascimbeni, del "Corriere", che lo intervistava su quel divieto di poesia dopo Auschwitz, Levi rispose in modo sorprendente ed emblematico, che costringe il lettore, già sorpreso dal paradosso della sentenza adorniana, a non lasciarsi sopraffare da essa, ma a valutarla in modo critico nonostante l'autorità di chi l'ha pronunciata. Rispose: «La mia esperienza è stata opposta. Allora mi sembrò che la poesia fosse più idonea della prosa per esprimere quello che mi pesava dentro. In quegli anni avrei riformulato le parole di Adorno: dopo Auschwitz non si può più fare poesia se non su Auschwitz». Una lunga teor ia di poeti, scrittori, architetti e registi, soprattutto a partire dalla metà degli anni Ottanta, ha diffuso immagini, metafore e simboli di Auschwitz per codificare e trasmettere la memoria della più grande barbarie del XX secolo. Fino a quel monumento nel tempo che è la giornata del 27 gennaio, con l'annuale cascata di iniziative che sono sotto i nostri occhi. Memoria ormai ineludibile, immagini ubique, retorica cui non ci si può (né ci si deve) sottrarre. Non c'è da stupirsi, dunque, se molti inizino a interrogarsi sui rischi della proliferazione di poesia (leggi: film come Schindler's List e La vita è bella, mostre, convegni, pagine intere di giornali, rappresentazioni teatrali, persino fumetti) su Auschwitz. «La massificazione dei simboli dell'Olocausto - scrivono Marcello Flores e Simon Levis Sullam nell'introduzione al secondo volume della Storia della Shoah, appena mandata in libreria dalla Utet e tutta dedicata alla memoria del XX secolo - ha reso sì immediatamente riconoscibili quelle che sono divenute vere e proprie "icone dell'atrocità", d'altra parte essa le ha anche svuotate del loro significato storico e in un certo senso della loro effettiva referenzialità e pregnanza». Se dell'industria culturale la memoria ha bisogno per diffondersi e codificarsi, essa ha ancor più bisogno del senso critico, della capacità di comparazione storica e di qualche antidoto alla retorica contro i rischi di banalizzazione o di svuotamento di contenuti specifici e come tali complessi, non «romanticizzabili». Ben venga ogni iniziativa, ma venga con sobrietà nella consapevolezza che la memoria della Shoah non può essere una moda ma una dura lezione di pensiero ed educazione morale. Venga con il pudore che si deve a chi è stato costretto al silenzio delle vittime. Venga con la voglia, silenziosa ma determinata, di capire le radici dei fenomeni, soprattutto in questi tristi giorni di saluti romani, chiari segni che l'inciviltà della violenza è ancora tra noi.
«Avvenire» del 24 gennaio 2007

Se la poligamia viene rivendicata come un diritto

di Magdi Allam
«Mi fa piacere avere quattro mogli, ma se il governo non mi permette allora cosa faccio? Devo andare in clandestinità e questo non è giusto». Così Mohamed Bahà el-Din Ghrewati, eminenza grigia dell’Ucoii, nel Tg1 di domenica sera si è spinto oltre l’apologia della poligamia, arrivando a chiederne la legalizzazione: «Magari se la legge italiana accetta la poligamia, così risolve tanti problemi di milioni di persone, non migliaia». Il servizio di Barbara Carfagna, nel telegiornale di massimo ascolto della Rai, ha il merito di aver chiarito a milioni di italiani la strategia degli estremisti islamici. Hanno iniziato con il celebrare i matrimoni islamici in seno alle moschee, attribuendogli una connotazione religiosa e trasformandolo in un sacramento, laddove negli stessi paesi musulmani è un semplice contratto privatistico che si contrae e festeggia laicamente nell’abitazione degli sposi. Hanno proseguito con l’invocare «la facoltà di celebrare e sciogliere matrimoni religiosi senza alcun effetto o rilevanza civile secondo la legge e la tradizione islamica» (articolo 12 della bozza d’intesa dell’Ucoii con lo Stato Italiano), cioè la possibilità di essere poligami di fatto senza esigere il riconoscimento giuridico. Ed ora hanno compiuto un ulteriore passo in avanti chiedendo pubblicamente la legalizzazione della poligamia. Si obietterà che Ghrewati, neuropsichiatra e omeopata, ufficialmente presidente onorario della Casa di cultura islamica di via Padova a Milano, non è nel direttivo dell’Ucoii e che quindi parlerebbe a titolo personale. In realtà sappiamo che i veri leader dei Fratelli Musulmani, a cui fa riferimento l’Ucoii, preferiscono operare sotto mentite spoglie. Come è stato il caso del banchiere Youssef Nada, cittadino italo-egiziano, residente a Campione d’Italia, fondatore della Banca Al Taqwa, che era il «ministro degli Esteri» del movimento internazionale dei Fratelli Musulmani fino al sequestro dei beni quando, all’indomani dell’11 settembre 2001, emerse la sua connivenza con il terrorismo islamico globalizzato. La particolarità dell’iniziativa di Ghrewati, così come lui stesso ha dichiarato a Paolo Colonnello nell’intervista pubblicata su La Stampa il 7 gennaio scorso, è il tentativo di far passare la poligamia come «una proposta culturale che andrebbe discussa». Dopo essersi qualificato come un «poligamista», Ghrewati ha esplicitato che «noi musulmani proponiamo la poligamia come rimedio al fallimento della società italiana». E indossando i panni del medico ha sentenziato che «la poligamia è un rimedio contro le tensioni sociali e i tumori della prostata e del seno». L’obiettivo di Ghrewati è quello di accreditare la poligamia come un diritto individuale che, al pari della coppia omosessuale, dovrebbe essere riconosciuto dalla legge come un Pacs: «Qui parlate apertamente di matrimoni tra gay e rifiutate anche solo l’idea della poligamia. Però tollerate amanti e doppie famiglie. Basta che tutto si viva in clandestinità». Ci rincuora il fatto che i musulmani d’Italia sono subito insorti contro le farneticazioni di Ghrewati e contro l’intento dell’Ucoii di legalizzare la poligamia. Nella consapevolezza che non si tratta affatto di una rivendicazione che attiene alla sfera individuale, bensì di una strategia di potere mirante a imporre in Italia la loro versione radicale, maschilista e violenta della sharia, la legge islamica. Ed è significativo che i primi a protestare siano state le donne, a cominciare da Souad Sbai, fino a coinvolgere la maggioranza dei membri della Consulta per l’islam italiano. Mi auguro che a questo punto se ne accorga anche la maggioranza del Parlamento e della magistratura italiana, fin troppo silente su una questione considerata erroneamente come inesistente o tutt’al più marginale. Immaginando che ci si possa mettere l’anima in pace fintantoché non viene violata la legge formale, anche se di fatto la poligamia si celebra nelle moschee e si pratica nelle case dei musulmani. Dobbiamo forse attendere il prossimo spettacolo televisivo di un corteo di donne velate e uomini barbuti che rivendicano il diritto alla poligamia, per deciderci a sanzionare seriamente questi militanti dediti all’islamizzazione dell’Italia?
«Corriere della sera» del 23 gennaio 2007

Negazionismo

Il ministro della Giustizia propone un disegno di legge per sanzionare chi nega l’Olocausto. Gli studiosi di destra e di sinistra si ribellano
di Dario Fertilio
Manifesto degli storici contro Mastella: «La verità non si stabilisce con una legge»
«Verità storica di Stato»: secca e bruciante, la definizione punta diritta al cuore del ministro della Giustizia Clemente Mastella, e della sua idea di colpire per legge i negatori della Shoah. Perché non esiste errore così grave da dover essere sanzionato per bocca di un giudice, né tesi talmente riprovevole da far meritare al suo autore una permanenza tra le mura di un carcere. E così il Manifesto dei Centocinquanta, intitolato significativamente «Contro il negazionismo, per la libertà della ricerca storica», rimescola le acque e muta le prospettive politiche di una vicenda data troppo presto per scontata. Tanto più che fra i Centocinquanta (in realtà molti di più che hanno sottoscritto successivamente il documento) sono rappresentate varie scuole politiche e culturali, oltre che la quasi totalità delle università italiane, addirittura con una prevalenza numerica della sinistra progressista. In testa a tutti c’è Marcello Flores dell’università di Siena, primo firmatario e ideatore del documento insieme con Simon Levis Sullam ed Enzo Traverso, seguono personaggi come David Bidussa della Fondazione Feltrinelli, Paul Ginsborg (il teorico dell’impegno girotondino), Alessandro Pizzorno e Anna Rossi Doria, Carlo Ginzburg e Andrea Graziosi, Mario Isnenghi e Sergio Luzzatto, Claudio Pavone e Giorgio Rochat, Angelo D’Orsi e Giovanni De Luna. Non mancano, certo, anche gli esponenti di altre aree politiche e culturali, da Giovanni Belardelli a Franco Cardini, Roberto Chiarini, Simona Colarizzi, Ernesto Galli della Loggia, ma il tono generale è innegabilmente progressista, quasi a lanciare un messaggio preciso: le collocazioni politiche passano in secondo piano quando si tratta di difendere la libertà d’opinione e di ricerca storica minacciate - magari con le migliori intenzioni - dalle invasioni di campo della politica e della magistratura. Sullo sfondo, un convitato di pietra non nominato ma sottinteso, e un precedente inquietante: quel David Irving, negazionista dichiarato a proposito delle camere a gas e della Shoah, finito in carcere in Austria per un reato esecrabile quanto si vuole, ma pur sempre d’opinione. Colpisce, nel Manifesto dei Centocinquanta, la netta presa di posizione, insolita nel dibattito culturale italiano per lo più ovattato ed allusivo: un no rotondo a quel «disegno di legge che dovrebbe prevedere la condanna, e anche la reclusione, per chi neghi l’esistenza storica della Shoah», che il governo Prodi per bocca del ministro Mastella ha annunciato di voler presentare il 27 gennaio, in occasione della Giornata della Memoria. Un no che culmina in quella definizione di «verità storica di Stato» che costituisce il passaggio emotivamente più forte del Manifesto. Le argomentazioni polemiche sono articolate in tre punti. Primo: secondo i firmatari si offre ai negazionisti - anzi è purtroppo già avvenuto - l’opportunità di ergersi a difensori della libertà d’espressione. Secondo: si stabilisce una verità di Stato sulla storia, rischiando paradossalmente di delegittimare proprio ciò che ci si propone di difendere. Con una serie di paralleli ad effetto, i firmatari del Manifesto arrivano a catalogare sotto la dizione «verità di Stato» il «socialismo» nei regimi comunisti, «l’antifascismo» nella Germania dell’Est, la «non esistenza» del genocidio armeno in Turchia e la cancellazione della rivolta di Piazza Tienanmen nella verità ufficiale del regime di Pechino. Tutti precedenti che dovrebbero sconsigliare un governo democratico dall’avventurarsi su un simile terreno. Terzo: si accentua l’idea, assai discussa dagli storici, della «unicità della Shoah», «non in quanto evento singolare, ma in quanto incommensurabile e non confrontabile con ogni altro evento storico». Ma se un fatto viene posto «al vertice di una presunta classifica dei mali assoluti del mondo contemporaneo», si finisce per spostarlo nel mondo della metafisica, impedendo una riflessione su di esso. La strada che il ministro Mastella e il governo Prodi hanno intenzione di percorrere è lastricata dunque di buone intenzioni ma conduce all’inferno: così si potrebbe liberamente parafrasare il Manifesto. Infatti, una cosa è condannare le tesi negazioniste di chi incita alla violenza e all’odio razziale, un’altra andare al di là delle leggi già esistenti, giudicate dai firmatari «sufficienti a perseguire i comportamenti criminali che si dovessero manifestare su questo terreno». E così, se non ci saranno ripensamenti, si profila uno scontro con il mondo intellettuale italiano, non solo accademico e potenzialmente maggioritario. Un consiglio dei ministri non privo di rischi dovrà dire sì o no al testo che il ministero guidato da Mastella sta mettendo a punto: c’è il rischio di innescare reazioni a catena, dal momento che l’idea di colpire il negazionismo, limitandolo al nazismo, si è già scontrata in Europa con l’indignazione di coloro che chiedono di equiparare i crimini commessi sotto il segno della svastica a quelli marchiati con falce e martello. Ma d’altra parte la preoccupazione per il crescente antisemitismo è alimentata da un altro incubo: quello che ha il volto iraniano di Ahmadinejad, che del negazionismo fa la sua bandiera, tentando di fornire ai suoi adepti una legittimazione scientifica e alibi politici nuovi di zecca .

PIERO MELOGRANI: PERCHÉ NO
«Anche chi sostiene tesi assurde non merita di finire in carcere»
«Io stesso - racconta Piero Melograni - ho assistito con i miei occhi a una deportazione di ebrei. Era il 16 ottobre 1944, ero nel quartiere di Roma dove abitavo: mi hanno spiegato che sotto i teloni di un camion c’erano quelli che stavano portando via. E proprio per questo, per fedeltà a quel ricordo, mi oppongo all’idea di Mastella, perché un provvedimento di legge sulla negazione della Shoah finirebbe con l’indebolire la verità». In che modo si produrrebbe un effetto simile? «Facendo nascere tra la gente la convinzione che, se certe cose è vietato dirle, è perché si vuole nascondere una qualche verità». L’errore, insiste Melograni, sta nell’idea in sè di una legge che regoli ufficialmente le opinioni. «Sui grandi fatti storici contano le opinioni diffuse e non le leggi. L’importante è ricordare, non far balenare la possibilità di una punizione, che finirebbe col produrre un effetto opposto». Ovvio che, secondo Melograni, il ragionamento va applicato a qualsiasi altra forma di negazionismo, che riguardi i genocidi comunisti o quelli dell’impero ottomano: «sono d’accordo» - conclude - con i firmatari del documento» (d. fert.)
FURIO COLOMBO: PERCHÉ SI'
«Bisogna punire chi vuole cancellare l’orrore del passato»
«In Occidente non esistono grandi eventi storici che col tempo siano stati negati. Dallo sbarco dei Mille alla guerra anti-schiavista in America, i fatti vengono interpretati ma non si tenta di cancellarli. Questo non vale per la Shoah: devo concludere che essa viene negata da qualcuno perché riguarda gli ebrei». Furio Colombo, estensore e primo firmatario della legge che ha istituito anche in Italia il Giorno della Memoria, è convinto che dietro alle pretese scientifiche di chi minimizza le camere a gas si annidi un sottinteso tenebroso: «negano per alludere implicitamente al fatto che troppi ebrei sono sopravvissuti». «Questo - continua - spiega perché alcuni paesi civili hanno deciso di considerare reato penale il negazionismo. Cancellare la memoria, in questo caso, implica la possibilità di ripetere ciò che si nega». Approva dunque l’iniziativa di Mastella? «Penso che il negazionismo dovrebbe essere considerato reato, e punito severamente, quando chi lo commette riveste una carica pubblica, e in particolare quando ha l’incarico di insegnare». E i cittadini comuni? «Preferisco rimproverarli di essere fuori della storia e in contrasto con il paese in cui vivono. E sogno una mobilitazione d’opinione su questi temi». (d. fert.)
«Corriere della sera» del 23 gennaio 2007

19 gennaio 2007

Un canone letterario? Liberi tutti: tra amnesie errori e scelte coraggiose

Alla fine il treno dei desideri del pubblico viaggia al contrario rispetto a quello dei critici
di Paolo Di Stefano
Il passato non solo cambiava, ma cambiava in continuazione», disse Winston, ripensando a dieci anni prima, quando il Grande Fratello non si era ancora insediato in Oceania. Il Piccolo Fratello è d’accordo con il protagonista di 1984. Basta ripensare alla letteratura: il canone letterario, ha scritto Cesare Segre, non si dà una volta per tutte, varia con il variare del gusto e della cultura. Oggi non si fa che parlare di canone. E non è una questione da poco, visto che il canone letterario è qualcosa che si avvicina al patrimonio che l’istituzione scolastica dovrebbe trasmettere alle nuove generazioni. L’ultimo numero della rivista Vita e pensiero apre una discussione al riguardo. Alfonso Berardinelli osserva che il solo canone italiano che abbia un senso è la Storia di De Sanctis (1870-71): primo perché De Sanctis «resta il nostro più grande critico» (ma non si dimentica di un certo Contini?), secondo perché lavorò in una fase storica cruciale in cui era lecito inventarsi una tradizione. A integrazione del famoso Canone occidentale di Harold Bloom (che comprendeva tra gli italiani solo Dante), Berardinelli segnala Collodi, Machiavelli e Casanova, cioè il padre di «una creatura di legno» e «due prototipi dell’italiano opportunista e privo di princìpi morali». Se avesse ragione, non ci sarebbe da stare allegri. Carlo Ossola ritiene che Dante sia il miglior autore contemporaneo, perché continua a interrogarsi/ci su temi eterni e oggi particolarmente urgenti, come l’esilio. Ma per disegnare un canone del nostro secolo, partirebbe comunque dalle Lezioni americane di Calvino. Non per tutti Calvino è irrinunciabile.
L’Istituto Treccani, pensando esplicitamente alla scuola, ha chiesto a un gruppo di studiosi e critici di votare i dieci scrittori italiani del secondo Novecento. Risultato: primi a pari merito Gadda e Morante con 5 voti; seguono Volponi, Meneghello e Fenoglio con 4; poi, con 3 voti, Primo Levi, Tomasi di Lampedusa, Parise, Eco, Tondelli e, appunto, Calvino. Il che sancirebbe il quasi declino di Sciascia, Pasolini e Moravia. Si potrebbe continuare con le sorprese. Le scelte, che potevano spaziare dal 1955 al 2005, si sono addensate negli anni ‘60, nettamente il decennio preferito. Giulio Ferroni addirittura ha concentrato la sua decina nello strettissimo giro 1957-’63. Formidabile il ‘63: Fratelli d’Italia, Una questione privata, La cognizione del dolore, Lessico famigliare, La tregua e Libera nos a malo. Niente male. Tra i viventi, svetta Meneghello su tutti. Alcuni degli interpellati hanno avuto anche il «coraggio» di citare scrittori nati dopo il ‘40, come Vassalli, Tabucchi, Moresco e Busi. E qualcuno si è spinto oltre, pronunciando i nomi di Lodoli, Mari, Franchini, Petrignani. Nove e Mazzucco sono i soli rappresentanti dei quarantenni. Più ci si avvicina ai nostri anni più i pareri sono discordi. È logico. Nell’elenco pubblicato dal sito Treccani ci sono incomprensibili sfasature cronologiche: per esempio La chimera di Vassalli viene registrata nel ‘94 ma è del ‘90; i Sillabari nell’84 ma sono del ‘72 e dell’82. Peccato per una proposta destinata alle scuole... Si diceva delle amnesie dei critici. E’sempre la solita storia: se Bloom si permette di escludere Petrarca e Leopardi dal suo Codice, liberi tutti di sparare la propria sentenza. Del resto, il canone, come si diceva, non è dato una volta per tutte. Forse Dante non sarebbe stato inserito tra i modelli del Sei e del Settecento. Liberi dunque, i critici chiamati dalla Treccani, di ignorare Soldati, di cui tanto si ripubblica in questi mesi. Liberi di dimenticare Emilio Tadini, Lalla Romano e Anna Maria Ortese. Non pervenuti Fruttero & Lucentini? Non pervenuto Scerbanenco in un’epoca «giallo-noir» come la nostra? Liberi tutti. Del resto, si sa, il treno dei desideri (dei lettori) nei pensieri della critica all’incontrario va...
«Corriere della sera del 9 gennaio 2007

17 gennaio 2007

Il flop del videotelefono? È la rivincita della libertà

Un caso da manuale: quando la macchina non incontra l'uomo
di Giuseppe O. Longo
Che si voglia parlare di flop all'americana oppure di fiasco alla vecchia maniera italiana, resta il fatto che alcune tecnologie sono proprio un fallimento, anche quando le premesse sembrano allettanti. Pare che in Italia il 40 per cento dei giovani tra i 16 e i 20 anni possieda un videofonino, cioè un cellulare che consente di collegarsi non solo in voce ma anche in immagine con l'interlocutore, ma che pochissimi lo usino per "videotelefonare". Perché mai? E perché anche il videotelefono fisso, i cui esordi in America risalgono a oltre settant'anni fa, non ha mai avuto successo nonostante svariati tentativi, mentre il telefono tradizionale e poi il cellulare classico hanno avuto una diffusione esplosiva? Occorre interrogarsi non solo sulla validità tecnica in sé di uno strumento, ma anche sulle sue possibilità di inserimento nel contesto sociale e sulla sua compatibilità con le abitudini, la sensibilità e le esigenze degli utenti: insomma il rapporto uomo-macchina è più complicato di quanto si creda di solito, anche a prescindere dai costi del servizio offerto. Chiediamoci: ci piacerebbe rispondere a una videotelefonata mentre siamo (semi)nudi, o ci troviamo in compagnia «sbagliata» oppure in un luogo dove non dovremmo essere? Già il telefono normale ha una sua perentoria indiscrezione, ma pur invadendo la sfera sonora ci lascia liberi quanto agli altri sensi, soprattutto la vista. E ci consente quindi una certa libertà di dissimulare, che se non è usata per nuocere o per delinquere, spesso ci salva da situazioni imbarazzanti se non da guai peggiori. E poi quando siamo al telefono non dobbiamo, per creanza, controllare la nostra espressione e la nostra postura, possiamo continuare a scrivere o a sfogliare un libro, insomma possiamo mostrarci educati attraverso il controllo della sola voce e non siamo obbligati a mostrare interesse col viso se l'interesse non c'è. Eliminando alcune componenti della comunicazione faccia a faccia, il telefono tradizionale ci consente un contatto che, sebbene più povero, è abbastanza espressivo e ci offre una libertà che il videotelefono ci nega proprio a causa del vantaggio che vorrebbe assicurare. Insomma, per quanto promettenti possano sembrare, certe tecnologie in pratica non incontrano. Altre, che sembrano fallimentari, invece hanno successo proprio grazie a quelli che sembravano difetti: la radio, concepita da Marconi come un "telegrafo senza fili", diffondeva i messaggi nell'etere, sicché chiunque poteva ascoltare una conversazione privata tra due interlocutori. Ma questo difetto ne fece lo strumento ideale per la "diffusione circolare", in cui una stazione trasmette e molti utenti ascoltano (senza poter a loro volta replicare e, in più, pagando anche un canone).
«Avvenire» dell’11 gennaio 2007

Quell'ansia di rimuovere la memoria di un male

La gente di Erba di fronte al massacro
di Marina Corradi
Non è solo il silenzio di una casa dove quattro persone sono state uccise senza una ragione, a smarrirti per le vie di Erba. E nemmeno la freddezza con cui, per un mese, un uomo e una donna hanno saputo mantenere i nervi saldi, e deporre per primi dei fiori in omaggio ai morti. Non è solo dunque il sangue versato, nè la lucidità degli assassini, ciò che ti resta addosso come una cappa, quando ti allontani sulla strada che corre verso Milano. C’è qualcos’altro, che opprime.
Sono le parole sentite in piazza, e davanti a quella cascina; in una ampia scala dallo sgomento alla rabbia, alla vendetta ("Diamoli in pasto ai cani"), fino al semplice scrollare di spalle di chi dice: sono solo dei pazzi. Ma sia le maledizioni che la più "caritatevole" opzione per la follia hanno in comune come un istinto nascosto : quei due, non hanno nulla a che fare con noi. Mostri, o folli, ma certo del tutto estranei a questa nostra comunità di gente onesta. A noi che lavoriamo tutto il giorno, come si fa in Brianza, a noi perbene.
E quella sera di morte diventa allora come un fulmine che dagli inferi si sia assurdamente scagliato nel cuore di una città serena e in pace, dove tutti - poiché lavorano tanto - sono buoni. Dove l’unica possibilità, e in effetti la prima strada scelta il giorno dopo la strage, era nel dire: certamente, sono stati degli stranieri.
Ciò che allora ti rimane e ti pesa, dai crocchi di folla di via Diaz, è come una collettiva smemoratezza. Non, certo, propria solo di Erba, ma comune a tante regioni d’Italia e d’Europa in cui una rapida secolarizzazione abbia disseccato le radici che per secoli, in quelle terre, avevano dato forma al vivere comune. Un oblio della coscienza del male: che, nella tradizione cristiana, ci riguarda tutti, e da cui nessuno è escluso, o salvo. Certo, la notte di via Diaz è una fiammata che pare risalita dagli abissi; ma nel ripetere ossessivo di passanti e vicini ("come è possibile? qui siamo tutti gente che lavora"), si avverte una radi cale dimenticanza. Si è scordato che quel male impazzito era forse, all’inizio, solo lo sguardo di invidia di una donna senza figli verso un’altra, felicemente madre, o il rancore per un saluto negato. Un piccolo odio amorosamente covato, che alla fine si è impadronito dei suoi "padroni". "Saranno stranieri", "sono pazzi": ansiosi argomenti per rimuovere la memoria di un male che è anche cosa nostra, non estranea né aliena, una radice da cui nessun cristiano può dirsi immune.
Se non venendo meno alla coscienza di aver bisogno di Dio - se non perdendo la consapevolezza ontologica di essere, prima di tutto, poveri, e figli. Quando non si è più figli, diventa faticoso considerarsi fratelli. Nessun bisogno, o attesa, accomuna davvero. L’istinto tende a perseguire e difendere il proprio personale vantaggio. Onestamente, magari: facendo semplicemente i fatti propri. O ferocemente, come i due che si rallegravano, dopo aver massacrato anche un bambino, di come la casa era "finalmente tranquilla".
Settant’anni fa il poeta Eliot si chiedeva se quella civiltà di cui andiamo fieri sarebbe sopravvissuta all’indebolirsi della fede in cui affonda le radici. Le ferocie insensate che con singolare frequenza squarciano la pace della nostra provincia non sono forse un segno di questo inaridimento sotterraneo? E, ovunque, che comune premura di chiamarsi fuori, di dire: sono mostri, o stranieri, o folli. Comunque, altri da noi, che siamo brava gente. Da noi, che siamo "a posto".
«Avvenire» del 13 gennaio 2007

E tutto il mondo riscopre il latino

Qualcuno storce il naso e ritira fuori i soliti vecchi luoghi comuni: studio inutile e noioso, meglio il cinese, meglio l’arabo... Ma questi sono anni di vero e proprio boom per le lettere classiche. Dagli Usa alla Finlandia, dall’Inghilterra all’Italia, sono sempre di più i cultori della lingua di Cicerone
di Gian Maria Vian
Nell’ultimo ventennio negli Stati Uniti i candidati all’esame preuniversitario sono quasi triplicati:nel 1985 erano 50mila, oggi sfiorano i 150mila.Anche i fumetti parlano con le cinque declinazioni: dopo Paperino-Donaldus Anas e Snoopy-Snupius, a Londra Barbara Bell ha creato il primo topo che parla direttamente in latino e vende diecimila copie all’anno: MinimusPionieri di questa rinascita sono stati però i finlandesi, che da diversi anni trasmettono notizie radiofoniche nell’idioma di Quintiliano: sono i «Nuntii Latini», che si possono ascoltare anche su Internet

I cornificiani sono tornati. O meglio, hanno gettato la maschera. Su un autorevole quotidiano economico che evidentemente controllano da tempo, The Financial Times. Non si allarmino la gentile lettrice e il gentile lettore, pensando subito alla denuncia oscurantista che vede eretici dappertutto e ricorre magari a facili teorie evocanti complotti mondiali. I fatti sono fatti. La settimana scorsa, facendola finita una volta per tutte con l'ormai ricorrente propaganda in favore del latino, l'editorialista del giornale britannico Tim Harford ha scritto papale papale - come vedremo, è proprio il caso di usare questo modo di dire - che basta, è meglio studiare il cinese del latino. «A chi giova» (cui prodest)? «Elementare, Watson, ai nuovi cornificiani», avrebbe risposto imperturbabile Sherlock Holmes avvolto nel fumo della sua pipa.
Ecco le prove. Il noto columnist è stato scomodato per rispondere a un improbabile quindicenne romano, tale Andrea Rocchetto, il quale ha pensato di rivolgersi niente meno che al quotidiano d'oltre Manica - certo il suo giornale preferito - per lamentarsi dei suoi obblighi scolastici: «Nelle scuole italiane lo studio del latino è richiesto con una priorità che non viene accordata neppure all'inglese» (primo indizio). E poi la geniale proposta: «Potremmo studiare il cinese che aumenterebbe le nostre capacità logiche e ci aiuterebbe a ottenere qualcosa in futuro» (secondo inizio). La siderale lontananza da quanto succede nelle scuole italiane potrebbe fare pensare a una lettera inventata, ma il complottismo va respinto con fermezza. Anche perché basta la risposta di Harford a rivelare l'intento cornificiano.
E infatti, per accreditare obliquamente il punto di vista dei (neo)cornificiani l'editorialista ricorre dapprima al British style, da sempre sinonimo di eleganza: «Anche negli ambienti sociali più raffinati il latino è sempre meno sfoggio di erudizione e sempre più una dimostrazione di una gioventù sprecata, come sapere a memoria tropp i sketch dei Monty Python»; Harford cerca poi (inutilmente) di dissimulare dietro un antipapismo di facciata confermando che il cinese «sarebbe altrettanto efficace come esercizio mentale e offre il vantaggio supplementare che consente almeno di parlare con qualcuno che non sia il Papa». Per arrivare infine al suo vero obiettivo: in Italia dominano i sindacati, nella fattispecie quelli - notoriamente potentissimi - dei latinisti: «Le vittime sparpagliate sono milioni di studenti costretti a soffrire, mentre il vincitore è probabilmente una lobby ben inserita di insegnanti di latino».
Le risposte (italiane) non si sono fatte attendere. Gerardo Bianco - latinista e uomo politico (ma forse appartenente alla potente lobby presa di mira da Harford), intervistato su La Stampa del 7 gennaio scorso - ha premesso di non volere «rispondere a delle stupidaggini», ma subito dopo ha rovesciato le teorie dell'editorialista cornificiano: avendo «a cuore il mondo moderno e le sue istanze, credo che il latino sia indispensabile. Il problema, semmai, è che questa materia si studia sempre meno». E lo stesso giorno un altro latinista, lo scrittore Luca Canali, ha liquidato la questione su Il Giornale in termini sprezzanti: «È un'idiozia, frutto di un assoluto pragmatismo». Rincarando poi la dose: «In qualche caso l'economia rende idioti. Le cosiddette scienze pragmatiche stanno formando un'umanità incivile e mi stupisce molto che questa presa di posizione provenga proprio dall'Inghilterra, Paese che ha dato degli studiosi formidabili di storia e di letteratura latina e greca».
A salvare l'onore inglese aveva però pensato più di otto secoli fa Giovanni di Salisbury, l'umanista che a Parigi era stato allievo di Abelardo e Gilberto de la Porrée e poi era stato collaboratore dell'arcivescovo di Canterbury, Teobaldo, e del successore Tommaso Becket - nonché testimone del suo assassinio nella cattedrale voluto da Enrico II nel 1170 - e infine vescovo di Chartres.
L'intellettuale inglese fu uno dei protagonisti della rinascita culturale che nel XII secolo costituì un preludio medievale dell'umanesimo, e all'inizio del Metalogicon, una difesa degli studi di grammatica, retorica e logica conclusa nel 1159, sferrò un duro attacco contro i cornificiani, ora tornati sul Financial Times: avversari della cultura classica, costoro la ritenevano superflua perché gli studi letterari non portavano a nulla e andavano ridotti a vantaggio di quelli che consentissero impieghi immediatamente lucrativi.
Ma inglese è anche un collega di Harford - corrispondente da New York per The Daily Telegraph - autore del brillante Amo, Amas, Amat, and All That: How to Become a Latin Lover, vero e proprio best seller che insegna appunto «come diventare un perfetto amante (del) latino». E se ha ragione purtroppo Gerardo Bianco a lamentare il declino delle lingue classiche nelle scuole e nelle università, le iniziative controcorrente sono tante. E qualcosa queste iniziative sortiscono, se è vero che nell'ultimo ventennio i candidati statunitensi all'esame nazionale preuniversitario di latino sono oggi quasi triplicati rispetto ai 53mila del 1985. Pionieri di questa rinascita sono stati però i finlandesi, che da diversi anni trasmettono notizie radiofoniche nella lingua di Cicerone e Quintiliano, i Nuntii Latini, che si possono ascoltare anche su Internet e che hanno affiancato le cronache della rivista Latinitas, organo dell'omonima fondazione vaticana.
E dal Vaticano è venuta un'iniziativa che punta a favorire la propaganda in favore delle lingue classiche, con l'indizione di un premio abbastanza ricco - da parte del Pontificio comitato di Scienze storiche (www.vatican.va), che nel quadro del programma «Ad fontes» ha già assegnato il primo - per il migliore articolo giornalistico sull'importanza di latino e greco. E ancora dall'Inghilterra, a contrastare i cornificiani, è arrivato da Barbara Bell il primo topo che parla direttamente in latino e vende diecimila copie all'anno : Minimus - che dispone di un sito (www.minimus.com) - si aggiunge così ai suoi compagni, più popolari ma tradotti, da Donaldus Anas, che rendeva perfettamente il disneyano Donald Duck, e il bracchetto Snupius. Sì, il latino non serve (nel senso che non è servo di nessuno proprio perché abitua alla critica): per questo non piace ai cornificiani. Ma proprio è anche indispensabile. E alla fine diverte.
«Avvenire» del 14 gennaio 2007