31 dicembre 2007

I volenterosi carnefici della Stasi

di Vito Punzi
C’è voluto un film, l’anno scorso, il primo lungo­metraggio di Florian Henckel von Donnersmarck, per sollecitare la coscienza storica di un’intera generazione di occidenta­li (dunque non dei soli tedeschi). Ci sono voluti quel La vita degli altri e quello sguardo timido e insieme i­nespressivo di Ulrich Mühe. Un 'ca­so' tipico, non troppo frequente, d’incontro, in un’opera cinemato­grafica, tra bellezza (arte) e verità (storia). Certo i meritati riconosci­menti ottenuti dal film hanno mes­so sugli scudi von Donnersmarck, regista e sceneggiatore. Non può es­sere taciuto tuttavia il lavoro oscu­ro svolto da quei ricercatori che da anni danno il loro contributo alla ri­costruzione di oltre quarant’anni di storia al di là del Muro berlinese. U­na storia di libertà e diritti negati, di dittatura 'nazional-socialista' (e la definizione non sembri forzata). Tra questi c’è lo storico Hubertus Knabe, uno dei massimi esperti sulla storia della Ddr e impegnato da tempo, in particolare, per tenere viva la memoria delle vittime del regime della Sed, l’allora Partito comunista della Germania orientale.
Dottor Knabe, come valuta l’attua­le governo federale in rapporto a quella memoria?
«È parte dell’esperienza tragica vis­suta dalle vittime il fatto che in Ger­mania in questo s’impegni princi­palmente solo l’opposizione, men­tre il governo riesce solo a dichiara­re che non ci sono soldi. Dopo una battaglia durata anni è stata intro­dotta almeno una pensione per co­loro che furono vittime della perse­cuzione di 250 euro mensili, e tut­tavia viene riconosciuta solo agli in­digenti. Molti di coloro che nella D­dr hanno dimostrato coraggio civi­le ne pagano ancor oggi le conse­guenze ».
Che giudizio dà del Museo del check-point Charlie, il luogo che dovrebbe rappresentare la memo­ria di quelle vittime?
«Fino ad oggi alle vittime del regime della Ddr è stato dato un tributo insufficiente. E penso non solo ai circa mille morti, ma anche ai tanti feriti e agli oltre settantamila imprigionati. Quando presso il check­point Charlie sono stati ricordati i mille morti con altrettante croci di legno, l’area venne sgomberata dalla polizia. Per quei morti non c’è stato ancora alcun risarcimento. Mi sto adoperando per realizzare nel cosiddetto 'Palazzo delle lacrime' – quello che allora era a Berlino l’edificio di disbrigo delle pratiche di confine – un museo che documenti gli orrori provocati dal Muro».
Nel suo ultimo libro,'I carnefici so­no tra noi' («Die Täter sind unter uns», Propyläen Verlag, pagine 384), per 'carnefici' intende i qua­dri e i funzionari della Sed e della Stasi che spesso nell’attuale Ger­mania ricoprono ruoli importanti. Chi sono?«Nel Parlamento tedesco, per il par­tito La Sinistra siedono molti che al­lora collaboravano con la Stasi. Con le ultime elezioni è arrivato per la prima volta un personaggio che al­lora ricopriva un ruolo di particola­re rilievo, Lutz Heilmann. Anche nei Land dell’est sono ai vertici di quel partito ex collaboratori della Stasi. Nel Brandeburgo, per esempio, il ca­po del partito, Thomas Nord, la ca­pogruppo, Kerstin Kaiser e il porta­voce per gli affari politici interni, Hans Jürgen Scharfenberg. Questo accade anche nell’ambito econo­mico. A capo della Dresdner Bank di Mosca è per esempio un ex mag­giore della Stasi. Ma anche l’ex ca­po della Sed, Egon Krenz, o l’ultimo capo della Stasi, Wolfgang Schwa­nitz, vivono completamente indi­sturbati e nelle sortite pubbliche di­fendono ancora la Ddr».
Esistono ancor oggi numerosi as­sociazioni che si richiamano alla Stasi e raccolgono circa venticin­quemila membri. Nel suo libro, lei afferma che non si tratta di realtà indipendenti, piuttosto «collabo­rano strettamente con La Sinistra» con uno scopo preciso: la futura im­magine della pur decaduta Ddr. Perché pensa che questo sia un pro­blema che in Germania non do­vrebbe essere sottovalutato?
«Dal tempo della riunificazione, cioè dal 1990, è cresciuta un’intera ge­nerazione che conosce la Ddr solo per averne sentito parlare. Anche i più anziani tendono a rivalutare quel regime. Nel Land di Sassonia­Anhalt il 23 per cento della popola­zione rivorrebbe la Ddr. Ma la riva­lutazione della dittatura della Sed è un problema che riguarda il cuore della società. Il revisionismo storico delle associazioni che si rifanno al­la Stasi trova lì un terreno fertile. L’accettazione limitata della demo­crazia, che si manifesta anche nel successo dei partiti di estrema de­stra, rappresenta un pericolo molto serio per il sistema democratico te­desco ».
In quali ambiti l’attuale governo te­desco è condizionato da ex funzio­nari o ex quadri del regime della Sed?
«Il governo federale non è domina­to dagli allora quadri della Ddr, però esiste una propensione molto dif­fusa ad una posizione acritica ver­so la dittatura della Sed. Anche la conoscenza di ciò che essa è stata è piuttosto limitata. Molti, per esem­pio, non sanno che i campi di con­centramento di Buchenwald e di Sa­chsenhausen sono stati utilizzati anche dai comunisti. Il mix di igno­ranza e accondiscendenza porta al fatto che si sentono affermazioni che non ci si azzarderebbe mai fare a proposito della dittatura nazista. Per esempio, che gli asili nido o il si­stema educativo nel suo complesso siano da apprezzare ancor oggi co­me modelli».
Perché, rispetto ad altri Paesi euro­pei, negli ultimi anni la Germania è rimasta indietro nel confronto con la dittatura comunista?
«Negli altri Paesi post comunisti, co­me la Polonia, esiste una maggiore consequenzialità nel rapporto con il passato. Lì, per esempio, i simbo­li della dittatura comunista sono vie­tati alla pari di quelli nazisti. Sono stati realizzati grandi musei sulla storia più recente. Il fatto che in Ger­mania questo risulti più difficile non dipende solo dalle nostalgie presenti nei Land dell’est. Anche gli intellet­tuali della Germania occidentale si sono posti rispetto alla Ddr per la maggior parte in maniera molto a­critica. Questa acriticità dipende an­che dalla storia precedente il 1945: la Ddr è intesa sempre all’ombra del nazismo e in confronto ad esso vie­ne ritenuta innocua, sebbene sia stata la causa dell’annichilimento di centinaia di migliaia di persone».

CHI È
Lo storico della «Vita degli altri»

Oggi cinquantenne, Hubertus Knabe, è figlio di genitori fuggiti nel 1959 dalla Ddr (la Germania orientale). Dopo alcuni anni di militanza nel partito dei Verdi, co-fondato da suo padre Wilhelm, gli venne interdetto l’accesso nella Ddr dal 1980 al 1987. Dopo aver pubblicato alcuni libri sotto pseudonimo, dopo la riunificazione della Germania, dal 1992 al 2000, su diretto incarico da parte del Parlamento tedesco, ha iniziato a lavorare sui documenti prodotti dal ministero per la Sicurezza statale (Stasi) di Berlino Est. Attraverso la pubblicazione dei risultati delle sue ricerche (almeno una decina di volumi), si è dedicato in particolare alla diffusa presenza degli uomini della Stasi nell’allora Germania Occidentale. Dal 2001 è direttore scientifico del Centro monumentale di Berlino­Hohenschönhausen.
«Avvenire» del 28 dicembre 2007

La Chiesa vera amica della scienza

Sfatiamo il luogo comune sulla Chiesa oscurantista e ostile alla scienza. Il messaggio cristiano ha dato uno slancio straordinario alla scienza e alla tecnica. E innumerevoli sono stati gli scienziati credenti. Molti addirittura ecclesiastici
di Giacomo SAMEK LODOVICI


Secondo uno dei più frequenti luoghi comuni, tra scienza e fede cristiana c’è opposizione e ostilità e la Chiesa è stata nemica dello sviluppo scientifico.
Per rettificare questa falsità ci vorrebbe ovviamente molto spazio, ma qualche idea è comunque possibile fornirla.
Infatti, dal punto di vista della storia delle idee, la Chiesa ha proclamato un messaggio che ha dato grande slancio alla scienza e alla tecnologia. Lo possiamo vedere mediante un inventario minimo e necessariamente incompleto.

Le idee cristiane che hanno dato slancio alla scienza
1. Come ha sottolineato recentemente l’autorevole sociologo delle religioni Rodney Stark, la chiave di volta della superiorità scientifico-tecnologica vantata dall’Europa per molti secoli risiede nella sua straordinaria fiducia nella ragione, che ha comportato ogni sviluppo culturale, sociale e scientifico. E questa vittoria della ragione è merito inestimabile del cristianesimo. La valorizzazione cristiana della ragione è stata davvero innovativa, perché le altre religioni enfatizzavano solo il senso del mistero e aspiravano ad una conoscenza non razionale e discorsiva, bensì ricevuta per illuminazione divina e per intuizione. Per il cristianesimo la ragione ha un valore straordinario perchè: a) è un’immagine di quella divina; b) è un grande dono di Dio. Perciò la ragione deve applicarsi e progredire in ogni ambito, anche in quello scientifico.


2. Le culture antiche sono quasi sempre pervase da una visione negativa del mondo o, almeno, della materia (si pensi all’orfismo, ai presocratici, a Platone e, ancora nel III secolo d.C., a Plotino, ecc.; l’unica eccezione rilevante è Aristotele). Questa malvagità del mondo (o della materia) comporta un atteggiamento di disinteresse nei suoi riguardi, lo rende non meritevole di indagine e ricerca. Viceversa, per la Chiesa, il mondo e tutta la materia sono buoni, quindi da indagare e studiare a fondo: a) perché sono creati da Dio (l’idea della creazione non era mai stata guadagnata dai greci); b) perché Dio si è incarnato nel mondo.


3. Visto che Dio si riflette nel mondo (pur essendo diverso) come un pittore si esprime nel quadro, studiare il mondo significa scoprire la magnificenza di Dio e la sua potenza: «i cieli narrano la gloria di Dio e il firmamento annunzia l’opera delle sue mani» (Salmo 18). Galileo diceva che la natura è uno dei due libri scritti da Dio (l’altro è la Bibbia).


4. Visto che Dio è l’Autore del mondo, studiare il mondo equivale ad onorarne l’Autore.
5. Per molte culture antiche e per la filosofia greca (ad eccezione dei Pitagorici) la materia è irrazionale e dunque non è intelligibile, cioè non è comprensibile per la mente umana e per la scienza. Invece, per la Chiesa anche la materia è intelligibile, dunque potenzialmente conoscibile dal pensiero umano, perché è stata già pensata e poi creata da un Pensiero Creatore, quello di Dio. Anzi, la razionalità delle strutture del mondo, la loro conoscibilità da parte della mente umana, è un dato di fatto che rinvia a Dio come sua causa.


6. In buona parte delle culture arcaiche, nella filosofia greca (e tutt’ora in certe culture africane e asiatiche) il tempo ha un andamento circolare, ciclico, in cui tutto si ripete per necessità. È chiaro che questa concezione fatalista è frustrante per qualsiasi spirito di iniziativa, di intrapresa, scientifica e non solo: se tutto è già avvenuto, ogni apparente iniziativa nuova in realtà è una ripetizione nell’ingranaggio implacabile del tempo. Invece, per la Chiesa il tempo ha un andamento rettilineo, ed ogni avvenimento è una novità (pur se ricorrono delle somiglianze con il passato); tale visione dà slancio all’innovazione, alla ricerca, alla scoperta.


7. Nello stesso tempo, Dio non è un despota arbitrario, che cambia in ogni momento le leggi della natura. Così, le leggi che scopriamo un giorno restano vere anche il giorno dopo.


8. Per la Chiesa, la ricerca scientifica e la sua applicazione tecnologica sono una forma di obbedienza ad un comando di Dio: a) perché nella parabola dei talenti il Signore dice che ognuno deve far fruttare tutte le abilità che ha ricevuto in dote, quindi anche quella di studiare scientificamente il mondo; b) perché, più in generale, la ragione è un dono di Dio e va perciò esercitata quanto più possibile nella ricerca della verità.


9. Per i Greci e i Romani solo il lavoro intellettuale è stimabile e nobile; invece per la Chiesa ogni lavoro ha la sua dignità, anche quello manuale-tecnologico che interviene sul mondo. Infatti il Dio cristiano: a) interviene nel mondo; b) lavora per trent’anni come carpentiere a Nazareth.


10. Molte culture religiose antiche e moderne e alcuni filosofi greci (per es. Talete, Anassimandro, Senofane, ecc.) sono panteisti (Dio coincide con il mondo), oppure animisti (il mondo ha un’anima). Perciò l’atteggiamento più corretto nei riguardi del mondo è la venerazione, la contemplazione, ma non lo studio e l’intervento trasformativo-tecnologico. Viceversa, la Chiesa ha desacralizzato il mondo, spiegando che esso non coincide con Dio e non ha l’anima, perciò lo si può studiare a fondo e vi si può intervenire. Nello stesso tempo, il mondo è creato da Dio, perciò non appartiene all’uomo, che lo deve custodire e coltivare e non lo può devastare.

11. In molte forme culturali antiche (per es. l’orfismo e lo gnosticismo) e per molti filosofi (Eraclito, Platone, Aristotele) ci sono degli aspetti del sapere che vanno custoditi e non rivelati se non a pochi. Invece, per la Chiesa la conoscenza dev’essere condivisa e messa in comune. Ed è chiaro che quanto più si mettono in comune le proprie scoperte tanto più il sapere umano può progredire, perché, come dice il medievale Bernardo di Chartres, noi «siamo nani sulle spalle di giganti». I giganti sono le grandi menti che ci hanno preceduto, sulle cui scoperte noi possiamo appoggiarci e riuscire a vedere più lontano, cioè procedere oltre nella conoscenza. Mentre la dottrina della creazione e le conseguenti idee che ne discendono (la 3, la 4 e la 8) sono esclusivamente cristiane, le altre idee (alcune delle quali sono state messe in luce da P. Hodgson, cfr. bibliografia) del presente inventario non sono novità senza alcun precedente al cristianesimo, perché ci sono rari spunti sparsi già in precedenza. Ma solo la Chiesa le ha proclamate tutte insieme, così dando uno slancio formidabile alla scienza e alla ricerca scientifica.



Innumerevoli credenti hanno fatto numerose scoperte scientifiche
Ma non solo dal punto di vista teorico, bensì anche in concreto, i credenti e persino gli ecclesiastici hanno fatto importanti e significative scoperte scientifico-tecnologiche. Per esempio, fin dall’inizio del medioevo i monasteri furono centri di fervida innovazione tecnologica, dalla costruzione di edifici, all’agricoltura, al settore tessile, all’orologeria, alla metallurgia, all’incisione. Lo documenta Torresani in questo dossier. E l’esistenza, di cui parla Lanzilli, sempre in questo dossier, di innumerevoli scienziati credenti, spesso anche ecclesiastici, è la conferma più indiscutibile della piena compatibilità tra scienza e fede. Certo, nella storia della Chiesa ci sono stati momenti di difficoltà nel rapporto con la scienza. Non è qui il luogo di parlarne. La storiografia onesta ha però ormai documentato che se si ricostruiscono bene vicende come quella di Galileo e consimili, si può restare sorpresi nello scoprire che forse la Chiesa non aveva tutti i torti come continuamente si ripete. Ma, come detto, non è qui possibile dimostrarlo.



Anche la scienza può aiutare la fede
A noi resta almeno lo spazio per dire che non solo la fede cristiana ha dato slancio alla scienza, ma che, reciprocamente, anche la buona scienza può essere d’aiuto alla fede, perché può fornirle dei dati che valgono come supporto per intraprendere una dimostrazione, per es., dell’esistenza di Dio e dell’anima. Può offrire dei referti che (almeno fino a quando non vengano smentiti) costituiscono, insieme all’osservazione della natura, un punto di partenza da cui può prendere avvio il ragionamento filosofico che svolge le prove dell’esistenza di Dio (le più note sono quelle di S. Tommaso, ma se ne trovano formulazioni in Socrate, Platone, Aristotele, S. Agostino, Cartesio, Leibniz e tanti altri autori), che ricavano l’esistenza di Dio prendendo le mosse dalle caratteristiche del mondo e degli enti che costituiscono il mondo.



Differenze tra scienza e fede
Però devono essere chiare anche alcune delle differenze irriducibili tra scienza e filosofia/teologia.
1. La scienza studia solo ciò che è quantificabile e misurabile; filosofia e teologia studiano anche ciò che eccede il quantificabile/ misurabile, per esempio l’anima e Dio.
2. La scienza studia il come le cose avvengono, cioè le leggi dei fenomeni fisici (per es., come avviene la caduta di un grave o la sintesi clorofilliana); la filosofia e la teologia indagano il senso e lo scopo di un avvenimento. Ne L’uomo senza qualità di Musil (che di scienza se ne intendeva) al marito che piange la morte improvvisa e inaspettata della moglie, e che, gemendo, domanda: «Perché sei morta?» lo scienziato risponde in modo raggelante, insieme scientificamente esatto ed umanamente assurdo: «sua moglie è morta per arresto cardiaco». La risposta è corretta, ma insufficiente, perché non offre un senso alla morte che solo filosofia e teologia possono dare.
3. La scienza non è capace, da sé, di disciplinare il proprio esercizio, per es. di decidere se fermarsi o proseguire di fronte ad una sperimentazione letale per l’uomo, perché non è in sé capace di individuare il bene e il male; filosofia e teologia sono in grado di autodisciplinarsi, perché appunto il bene e il male sono uno dei loro ambiti di ricerca. Come diceva Novalis, un passo avanti nella tecnica richiede tre passi avanti nell’etica, cioè nella capacità di dirimere i complessi problemi etici che emergono (si pensi, per esempio, alla fecondazione artificiale, ai trapianti, alla clonazione, ecc.).

«Se il successo dell’Occidente si fonda sulle vittorie della ragione, allora l’ascesa del cristianesimo fu senza dubbio l’evento più importante della storia europea. Fu infatti la Chiesa a dare costante testimonianza del potere della ragione e della possibilità del progresso».
(Rodney Stark, La vittoria della ragione: Come il cristianesimo ha prodotto libertà progresso e ricchezza, Lindau, 2006, p. 62).

Bibliografia
Peter Hudgson, Scienza, origini cristiane, http:// www.disf.org/Voci/106.asp.
Rodney Stark, La vittoria della ragione: Come il cristianesimo ha prodotto libertà progresso e ricchezza, Lindau, 2006.
Stanley Jaki, Cristo e la scienza, Fede & Cultura, 2006.
Etienne Gilson, La filosofia del medioevo,La Nuova Italia, 1973, pp. 625-626, 812-819.

IL TIMONE - Aprile 2007

Vademecum sulla Natività, risposte sull’infanzia di Gesù

Vangeli & tradizione
di Lorenzo Fazzini
Natale, una leggenda edificante o il racconto di una storia particolare? Sulla nascita di Gesù di Nazareth i Vangeli riferiscono narrazioni fantastiche miste a pii commenti oppure si tratta di resoconti interpretativi vicini alla realtà dei fatti? Insomma, leggendo i brani biblici sulla vicenda del Cristo nascente bisogna procedere con la falce della demitizzazione («un falso problema») o incedere con circospezione alla ricerca delle pepite d’oro dei fatti storici? Se lo chiede - e si premura di rispondere, con dovizia di particolari - uno dei più grandi biblisti viventi, il francescano belga Frédéric Manns, per anni direttore dello Studium Biblicum Francescanum di Gerusalemme, il sancta sanctorum della ricerca archeologica in Terra Santa.
Manns ha appena dato alle stampe, per le edizioni Vita & Pensiero, una sorta di 'bignami esegetico' sui Vangeli dell’infanzia, utilissimo passepartout per entrare con profitto nei testi di Matteo e Luca sul periodo immediatamente prima, durante e dopo la Natività del Divino Bambino. Trenta domande (e trenta risposte) su Maria e la nascita di Gesù si intitola il volumetto (pagine 144, euro 14) che, nell’epoca delle baggianate alla Dan Brown sulla non storicità dei Vangeli, condensa nell’accattivante forma del botta e risposta la sterminata conoscenza biblica dello studioso seguace del Poverello.
Certo, quando si parla dei racconti neotestamenti sull’infanzia di Cristo non siamo davanti a resoconti di cronaca, ma si tratta di testi «storici nel senso che si interessano anzitutto alla storia della Salvezza» che, inoltre, «sono profondamente radicati nella storia giudica». La vicenda del Cristo nascente si dipana soprattutto in ambito giudaico: ecco quindi la necessità di una genealogia di discendenza davidica di Gesù, realtà attestata nel periodo in questione: «Nel primo secolo esistevano ancora discendenti di Davide - annota il francescano belga - . Su un ossario di Gerusalemme è incisa un’iscrizione: Appartenente alla famiglia di Davide».
Che Gesù sia nato a Betlemme, sono di assoluto rilievo ­evidenzia Manns - i dati storici che lo confermano: già Giustino di Nablus, nel suo Dialogo di Trifone del 135 (quindi ad un secolo dalla morte di Cristo), lo attesta con certezza. E anche il Contra Celsum di Origene del 248, scritto mentre l’autore si trovava in Palestina, riporta che la città di Davide ha visto nascere il Figlio di Dio. Sono poi convergenti le testimonianze dell’apocrifo Protovangelo di Giacomo e le successive attestazioni del 335 di Eusebio di Cesarea, il primo grande storico della Chiesa, nonché quelle più tarde di Cirillo di Gerusalemme e di san Gerolamo.
La datazione del Natale però, come noto, è artificiosa: l’annata fu ricostruita in maniera sbagliata dal monaco Dionigi il Piccolo del VI secolo. In verità, secondo Matteo, Gesù nacque sotto Erode il Grande, che regnò dal 37 al 4 a.
C. E quindi la notte del primo vagito di Cristo si deve situare intorno al 6 a. C. E il 25 dicembre? Qui la scelta deriverebbe - secondo Manns - dal 'simbolismo solare' diffuso in Palestina: se i seguaci del culto del dio Mitra festeggiavano in quella data la nascita del dio del sole Mitra, ecco che papa Liberio nel 254 scelse il solstizio d’inverno per celebrare la nascita del vero astro, Gesù.
Indizi storici, si diceva: sono quelli, ad esempio, dello storico Giuseppe Flavio che situa negli ultimi anni della vita di Erode - uccisore dei suoi propri figli - una rivolta «a motivo della diffusione di voci sulla sua morte». Quindi, il racconto di Matteo non è alieno da agganci con le vicende storiche del tempo, sebbene - annota Manns - all’autore biblico interessi di più il riferimento alla vicenda scritturistica di Mosè, visto che Gesù viene descritto come il nuovo Mosè. E pure la venuta dei Magi dall’Oriente non ha niente di spiritualista: secondo lo stesso Giuseppe Flavio, questi sacerdoti del culto persiano di Zoroastro avevano contatti con Gerusalemme; inoltre è da considerare una particolare congiunzione astronomica avvenuta tra il 6 e il 7 a. C., indizio che alcuni storici collegano con 'la stella' che fa da guida ai Re Magi. Il loro tradizionale numero di 3 fu individuato dagli apocrifi successivi ai vangeli canonici, come il Vangelo armeno dell’infanzia, che li 'battezzerà' anche in Gaspare, Baldassarre, Melchiorre.
Ancora: il presepe non ha solo una funzione fideistica ma anche 'reale', visto che secondo Manns l’espressione «non c’era posto per loro nell’albergo» va commentata così: «Perché il posto di una partoriente non era nell’albergo».
Per questo motivo Maria, donna osservante della legge, si può essere «ritirata in un luogo discreto per non complicare la vita ad altri».
«Avvenire» del 21dicembre 2007

Marta Sordi: aperturismo o vera integrazione?

Non aperturismo ma capacità di riconoscere il genio degli altri. Gli antichi latini hanno un'altra lezione da impartire a noi ciechi multiculturalisti moderni
di Roberto Persico
Marta Sordi è professore emerito di Storia antica dell'Università Cattolica di Milano. Le sue pubblicazioni sul mondo greco e su quello romano, sugli etruschi e sul cristianesimo dei primi secoli riempiono gli scaffali di una libreria. Oggi una grave malattia alle ossa limita un po' la sua mobilità. Talvolta, quando la invitano a un convegno, si limita a mandare un intervento. Lei, però, sopporta la sua sofferenza non solo con cristiana rassegnazione, ma con una letizia che è il segno di una fede profonda. E se la carne è debole, lo spirito è sempre quello, lucido e battagliero, pronto ad appassionarsi per la storia a cui ha dedicato una vita, con lo stesso entusiasmo con cui, tantissimi anni fa, ha cominciato. Così quando Tempi le ha chiesto un'intervista ha acconsentito prontamente.

Professoressa Sordi, lei ha speso tutta la vita a studiare le vicende dei greci e dei romani. Che cosa può dire di averne ricavato?

Moltissimo. La scoperta del metodo storico, all'università, col professor Alfredo Passerini, è stata una svolta per la mia vita, non solo sul piano culturale, ma anche per la mia fede. Sul piano culturale, perché arrivai all'università spinta da un'antica passione per gli etruschi, ma allora a Milano non c'erano cattedre di etruscologia, così finii per specializzarmi in storia greca, e mi incantò il metodo: la possibilità di leggere le fonti antiche, scoprendo attraverso un'attenta valutazione di ogni sfumatura la realtà che ci sta dietro. Per esempio, Passerini ci insegnò a riscoprire l'autentica figura di Tiberio negli scritti di Tacito. Tacito è fieramente avverso a Tiberio, e ne presenta un ritratto fortemente negativo. Ma una lettura attenta permette di distinguere i fatti da quelle che sono interpretazioni dello storico, e di scoprire così, al di là del filtro di chi riferisce, la figura di un grande imperatore. Tutto il mio lavoro di studiosa della storia antica è stato fedele a questa lezione: la possibilità di risalire, grazie a una lettura attenta, e tutte le volte che è possibile comparata, delle fonti, al dato contemporaneo che ne è all'origine. Certo, il metodo storico non attinge a una certezza assoluta, però può raggiungere una certezza probabile, cioè che può essere provata.

Prima accennava al fatto che questa scoperta è stata determinante anche per la sua vita personale.
Certo, per la mia convinzione religiosa. Io sono cresciuta nella fede cattolica, e non l'ho mai abbandonata. Ma la scoperta del metodo storico è servita a rafforzarla, a renderla consapevole. Un primo passo in questa direzione era già avvenuto al liceo. Io ho frequentato il liceo scientifico italiano a Bucarest, dove ci eravamo trasferiti per ragioni di lavoro del babbo proprio negli anni della guerra, tra il 1941 e il 1945. A Bucarest avevamo un professore di filosofia crociano, che ci spiegava tutto in termini di immanentismo, ma in maniera molto rispettosa di chi invece, come me, credeva nella trascendenza di Dio: ecco, nel confronto con le posizioni di quel professore mi convinsi della razionalità di quelli che la tradizione cristiana chiama preambula fidei, la certezza razionale dell'esistenza di Dio, della sua trascendenza e del suo carattere personale. Ma all'università, grazie al metodo storico, mi si aprirono davanti quelli che potrei chiamare i preambula fidei della fede cristiana in senso specifico, della fede nella divinità di Gesù.

Ci vuole spiegare meglio?
Guardi, ricordo una discussione con una compagna non credente, che una volta mi disse: «Ma come fai proprio tu che sei una storica a credere a queste cose?». Proprio perché sono una storica, risposi, sono portata a credere alla verità della pretesa di Cristo di essere Dio. Certo, la fede non può essere ridotta a un'operazione storiografica, è un salto qualitativo. Però lo studio storico, puntuale dei Vangeli ce ne mostra la storicità, l'attendibilità, ci mostra che quel Gesù di Nazareth è davvero esistito ed è stato un uomo con determinate caratteristiche. Riconoscerne la pretesa divina, ripeto, è un'altra cosa, però lo studio storico dei Vangeli favorisce, direi prepara il salto dell'adesione di fede: o quell'uomo, quell'uomo concreto, realmente esistito, che i Vangeli ci mostrano, era un ciarlatano, un pazzo, o era quel che diceva di essere, era Dio. È estremamente illogico affermare, come tanti fanno, che Cristo sia stato un grande profeta, un riformatore e quant'altro, e negare che fosse Dio: se non è quel che diceva di essere non sta in piedi nemmeno il resto. Il cristianesimo è una religione che ha un fondamento storico, non è semplicemente credere in Dio ma che Dio si è incarnato in una persona storica. La storicità dei Vangeli, accertabile col metodo storico, è una sorta di preambulum alla fede in Cristo.

I suoi studi, però, non si sono limitati alle origini cristiane.
Perché è sbagliato, artificiale separare il cristianesimo e la civiltà che ne è seguita dal mondo classico. C'è una continuità evidente tra la civiltà antica e il cristianesimo: il mondo antico si apre, accoglie il cristianesimo. Roma è il luogo in cui il cristianesimo si diffonde non solo perché l'impero, come si è sempre osservato, offriva le strade e la sicurezza attraverso cui il messaggio cristiano poteva viaggiare, ma soprattutto perché la mentalità romana era pronta ad accogliere quel messaggio. Sono segni impressionanti di questa attesa quelli che poi saranno chiamati i canti dell'Avvento del mondo romano, la quarta egloga di Virgilio e il carme 64 di Catullo. Il primo saluta il prossimo avvento di una nuova era, nella quale «sarà cancellato l'antico delitto». Il secondo canta la nostalgia per il mondo degli eroi, cioè per un mondo in cui gli dèi vivevano insieme agli uomini, distrutto dal nostro peccato, «e la luce si è spenta», conclude. Il mondo romano aveva in sé, potremmo dire, i preambula fidei, cui mancava solo la religione. Ma anche in questa molti (il citato Catullo per esempio, ma non solo) parlavano già del divino, la divinità: stavano già superando la concezione degli dèi omerici per aprirsi all'idea di un Dio unico. Il cristianesimo è dilagato perché il mondo antico era un mondo in attesa di qualche cosa.

Per questo dobbiamo recuperare la continuità con quel mondo.
Per questo e non solo. Un altro aspetto che sarebbe assolutamente da recuperare è quell'atteggiamento che si potrebbe definire multiculturale dei romani, i quali erano sempre pronti ad accogliere tutto quel che di buono trovavano presso altri popoli. Sottolineo: quel che trovavano di buono, diversamente dall'apertura indiscriminata dei giorni nostri, che considera tutto equivalente. I romani ebbero un senso fortissimo dell'importanza di acquisire tutto quel che di buono trovavano presso altri popoli, e non si facevano problemi a riconoscerlo. Quel che prendevano da altri lo riconoscevano come merito altrui. È proprio qui tra l'altro che fa leva sant'Ambrogio in una famosa risposta a Simmaco. Questi aveva immaginato una personificazione di Roma che chiedeva che le fossero lasciati gli dèi che le avevano dato tante vittorie: «Non mi pento di convertirmi anche se in tarda età», fa rispondere pressappoco Ambrogio alla medesima Roma, «perché, come ho sempre fatto, sto abbracciando una concezione migliore». Questa è stata la grande caratteristica dei romani, che li differenzia nettamente dai greci, che invece non si seppero aprire: la capacità di accogliere tutto ciò che riconoscevano migliore.

A proposito di greci, finora non ne abbiamo parlato. Cosa dobbiamo conservare della loro eredità?
La democrazia. La democrazia è un'invenzione greca, e in particolare ateniese, come rivendica con orgoglio Pericle nel grande discorso che Tucidide gli mette in bocca nel secondo libro de La guerra del Peloponneso. E ha due caratteristiche che non dovremmo dimenticare. La prima è che è una democrazia meritocratica: tutti sono uguali, non c'è differenza dovuta alla ricchezza o alla nascita, ma non tutti hanno le stesse competenze, e le cariche fondamentali vanno distribuite secondo la competenza. La seconda è l'obbedienza alle leggi, e soprattutto alle leggi non scritte, quelle degli dèi. È questo il fondamento che rende possibile una società democratica. Per i greci però questa era limitata ai cittadini, e la cittadinanza dipendeva strettamente dalla nascita. Uno straniero non poteva diventare cittadino: questa è stata la debolezza di Atene. Roma invece seppe passare dall'urbs alla civitas, dalla città su base etnica a quella fondata sull'adesione a valori condivisi, a un ordinamento comune.

Le sta proprio a cuore questa predisposizione degli antichi romani all'integrazione.
Perché è il cuore della tradizione occidentale. Come spiega Claudio, imperatore del I secolo, quando introduce alcuni galli, nemici sconfitti da meno di un secolo, nel novero dei senatori: «I miei antenati, il più antico dei quali, Clauso, di origine sabina, fu accolto contemporaneamente tra i cittadini romani e nel patriziato, mi esortano ad agire con gli stessi criteri nel governo dello Stato, trasferendo qui quanto di meglio vi sia altrove. Cos'altro costituì la rovina di spartani e ateniesi, per quanto forti sul piano militare, se non il fatto che respingevano i vinti come stranieri? Romolo, il fondatore della nostra città, ha espresso la propria saggezza quando ha considerato molti popoli, nello stesso giorno, prima nemici e poi concittadini». E Sallustio ne La congiura di Catilina spiega che la caratteristica di Roma sta nell'aver fatto una civitas di gente diversa, grazie alla concordia. Concordia è un concetto giuridico/politico che caratterizza tutta la vicenda di Roma. Indica che genti diverse possono convivere (e arricchirsi reciprocamente) quando riconoscono un comune ordinamento, quando accettano le stesse leggi. Roma nasce da un incontro fra diversi (i romani in senso proprio, i sabini, gli etruschi) che imparano gli uni dagli altri il meglio e che sono riuniti dall'obbedienza a una norma comune. Anche il mito della fondazione di Roma da parte di Enea, cioè di uno straniero, allude a questo. Roma porta questa struttura nel suo Dna. La nostra cultura dovrebbe reimpararla.

«Tempi» num. 48 del 29 novembre 2007

E lo scienziato si arrese all’anima

di Andrea Lavazza
« Mi considero un neuroscienziato 'spirituale'. Nella mia prospettiva, l’anima si riferisce all’essenza 'non fisica' della persona che si manifesta come coscienza, pensiero, sentimenti e volontà. Questa parte spirituale dell’essere umano continua a esistere dopo la morte fisica del corpo». Mario Beauregard, ricercatore dell’Università di Montréal, ha appena pubblicato un libro divulgativo che già dal titolo ( The Spiritual Brain. A Neuroscientist’s Case for the Exi­stence of the Soul) sfida le convinzioni dif­fuse tra i suoi colleghi. E sta prepa­rando un volume rivolto agli addetti ai lavori contro la visione materialistica dell’uomo.
Perché la maggior parte dei neuro­scienziati nega l’esistenza dell’anima?
«Le neuroscienze sono lo studio del cervello nei suoi vari livelli di orga­nizzazione, con un’impostazione necessariamente materialistica e naturalistica. Perciò quasi tutti gli studiosi ritengono che la loro ricerca non abbia nulla a che fare con l’anima, perché essa rappresenta l’aspetto 'non materiale', mentre il materialismo costituisce la tesi metafisica di base. Di conse­guenza, le funzioni mentali superiori, la coscienza e il sé possono ridursi a processi neurochimici e neuroelettrici. E anche le esperienze religiose, spirituali e mistiche (Ersm) diventano sottoprodotti dell’attività cerebrale. In questa cornice ideologica, l’anima è semplicemente un’illusione».
Che cos’è allora il 'cervello spirituale' del titolo del suo libro?
«Sono le strutture e le reti cerebrali coinvolte in vari tipi di Ersm. Il concetto è legato alle 'neuroscienze spirituali', un nuovo ambito di ricerca all’incrocio tra psicologia, religione, spiritualità e neuroscienze. Il principale obiettivo è quello di esplorare le basi neuronali delle Ersm. È decisivo, però, sottolineare che la comprensione del substrato neuronale di tali esperienze non diminuisce, né svaluta il loro significato e il loro valore».
A questo proposito, Lei ha condotto ricerche su un gruppo di suore cattoliche...
«Abbiamo usato la risonanza magnetica funzionale per misurare l’attività cerebrale di alcune carmelitane durante lo stato soggettivo di unione mistica con Dio. Il punto di partenza era l’ipotesi, avvalorata da studi su persone epilettiche intensamente religiose, che il lobo temporale fosse la specifica area del cervello asso­ciata alle esperienze di fede. I nostri risultati dicono, al contrario, che sono attive almeno dodici zone diverse dell’encefalo durante le fasi di estasi mistica. Zone che normalmente vengono coinvolte in varie funzioni, dalla percezione alle emozioni alla rappresentazione corporea. Ciò contraddice l’idea di un’'area di Dio' specificamente localizzata».
Ci sono prove scientifiche dell’esistenza dell’anima?
«Non ancora. Tuttavia, esistono alcuni dati aneddotici relativi a casi di esperienze di quasi-morte (Nde). Quello della cantante americana Pam Reynolds è il più noto, e inspiegabile secondo la scienza materialistica. Nel 1991, le fu diagnosticato un grande aneurisma cerebrale inoperabile. Il neurochirurgo Robert Spetzler di Phoenix propose di tentare con la tecnica dell’arresto cardiaco ipotermico: alle basse tempe­rature agire sui vasi è più agevole, mentre i tessuti possono resistere più a lungo senza ossigenazione. La Reynolds accettò il rischio. Durante l’intervento, la si poteva considerare 'morta': il suo cuore fu fermato e il suo elettroencefalogramma divenne piatto. Il tronco encefalico, responsabile delle funzioni automatiche, e i suoi emisferi cerebrali non davano più risposte, mentre la temperatura corporea scese a 22 gradi. A quel punto, i medici aprirono il cranio con una sega speciale. Successivamente, Pam riferì che in quel preciso momento si sentì proiettata fuori del corpo e fluttuante sul tavolo operatorio. Ma la cosa più notevole è che raccontò nei dettagli l’intervento (che non conosceva) e quello che diceva l’équipe in azione. Infine, entrò in un tunnel, al cui termine vide una luce calda, e sperimentò un’unione della propria anima con Dio.
Il caso è importante perché tutto accadde mentre la paziente era 'clinicamente morta' e ciò era certificato da persone esperte dotate di strumenti precisi; inoltre, Pam raccontò fatti verificabili che non avrebbe potuto sapere se non fosse stata cosciente nel momento in cui avvenivano ».
Tutto ciò che cosa dimostrerebbe?
«Innanzitutto, indica che la mente, la coscienza e il sé possono prolungare la loro esistenza quando il cervello è totalmente 'spento' e si è in presenza di morte clinica. In secondo luogo, in quelle condizioni, si hanno comunque le Ersm. E ci si può perfino spingere ad affermare, sulla base di molti altri racconti diffusi in tutto il mondo e in tutte le culture, che abbiamo la possibilità di connetterci, a livello mentale, con una coscienza superiore, cosicché i nostri atti mentali diventano distinti dal cervello, sebbene osservabili per mezzo di esso».
Le neuroscienze che cosa possono dire sulla religione?
«Le tecniche di visualizzazione del cervello possono mostrarci che cosa avviene nel cervello – dal punto di vista chimico ed elettrico – durante le esperienze religiose, spirituali e mistiche. Tuttavia, queste informazioni non ci dicono nulla circa la fenomenologia di tali esperienze (la prospettiva di prima persona; l’oggetto cui si riferiscono). Inoltre, la realtà esterna di Dio non può essere né confermata né smentita dall’individuazione dei correlati neuronali delle Ersm. Ecco perché, a mio parere, non ha senso parlare di neuroteologia».
Ricapitolando, quali sono gli argomenti contro un’interpretazione strettamente materialistica della mente?
«La scienza che adotta questa prospettiva è costretta a negare o a respingere o a cerca­re di dissolvere tramite una spiegazione tutti i fenomeni che sfidano il materialismo. E si tratta di una mole crescente che, oltre alle esperienze di quasi-morte, comprende anche l’effetto placebo (modificazioni fisiologiche indotte dalla semplice credenza di aver assunto una sostanza,
ndr). Soltanto una prospettiva non materialistica può offrire spiegazioni scientifiche di questi fenomeni elusivi, che la ricerca attuale accantona».
«Avvenire» del 28 novembre 2007

Il merito e il salario

La fatica del lavorare bene
di Pietro Ichino
Il presidente di Confindustria, Montezemolo, ha rilanciato con forza, in questi giorni, la parola d’ordine della meritocrazia; e il segretario della Cisl, Bonanni, gli ha risposto positivamente: «Il nostro obiettivo è lavorare meglio e di più, per produrre e guadagnare di più». Su questo tema, invece, la Cgil resta abbottonata. Questa sua riluttanza non risponde a ragioni tattiche contingenti: ha radici profonde nella cultura della sinistra. E niente affatto disprezzabili.
A sinistra l’idea dominante è che la produttività non sia un attributo del lavoratore, bensì dell’organizzazione aziendale in cui egli è inserito. «Prendi un ingegnere bravissimo e mettilo a spaccare le pietre: otterrai probabilmente un lavoratore molto meno produttivo di uno spaccapietre analfabeta». Se, poi, nessuno domanda pietre, entrambi stanno fermi e la produttività di entrambi è zero. Nel dibattito di tutto lo scorso anno sui nullafacenti del settore pubblico, questo è stato immancabilmente il concetto che veniva contrapposto all’idea di commisurare le retribuzioni anche ai meriti individuali: «Il risultato penosamente basso di molti uffici — si è detto da sinistra — ma anche il difetto di impegno di molti impiegati dipendono dal pessimo livello di organizzazione e strumentazione ».
C’è del vero in questo argomento; ma a sinistra si cade spesso nell’errore di fermarsi qui. È l’errore che il grande Jacovitti rappresentò con l’indimenticabile vignetta dove una mucca dall’aria torpida e pigra diceva: «Sono una mucca per colpa della società». La realtà è che la produttività del lavoro dipende da entrambe le variabili: sia dall’organizzazione, e talvolta da circostanze esterne incontrollabili, sia dalla competenza e dall’impegno del singolo addetto. E conta anche il suo impegno nel cercare l’azienda dove il proprio lavoro può essere meglio valorizzato.
Commisurare interamente la retribuzione al risultato significa, certo, scaricare sul lavoratore tutto il rischio di un esito negativo che può non dipendere da suo demerito. Ma garantire una retribuzione del tutto stabile e indifferente al risultato significa cadere nell’eccesso opposto: così viene meno l’incentivo alla fatica del far bene il proprio lavoro e del muoversi alla ricerca del lavoro più utile, per gli altri e per se stessi. Questa stabilità e indifferenza della retribuzione è la regola oggi di fatto imperante in tutto il settore pubblico, ma troppo largamente applicata anche in quello privato, per effetto di contratti collettivi che lasciano uno spazio del tutto insufficiente al premio legato al risultato.
E questo è uno dei motivi —insieme, certo, a tanti altri difetti strutturali e imprenditoriali — della bassa produttività media del lavoro nel nostro Paese. Per uno stipendio magari basso, che però matura qualsiasi cosa accada, ci sono sempre i lavoratori che si impegnano a fondo, se non altro per rispetto verso se stessi, e si ribellano alle situazioni di improduttività; ma ce ne sono sempre anche altri che se la prendono comoda, fino al limite del non far nulla. Un’iniezione di meritocrazia nei contratti collettivi e individuali fa certamente bene anche a questi ultimi.
«Corriere della sera» del 27 novembre 2007

Graal, ritorno al cattolicesimo

di Franco Cardini
Il Graal continua ad essere di gran moda: ma non si direbbe che, nonostante il baccano pubblicitario che gli si sta facendo intorno – o forse proprio a causa di esso –, le idee diffuse sulla sua na­tura siano granché più chiare. Con­tinua ad essere un 'oggetto misterioso': anzi, qualcosa di cui s’igno­ra perfino se sia in effetti un ogget­to, cioè una reliquia, o la forma me­dievale e occidentale di un mito di sapienza e di potenza concentrato in un oggetto simbolico. Nono­stante ciò, gli strumenti a disposi­zione di chi volesse una buona vol­ta capirne qualcosa senza lasciarsi guidare dal Martin Mystère o dal Dan Brown di turno ci sarebbero. Basterebbe ad esempio affidarsi al bel libro Il Graal. I testi che hanno fondato la leggenda, a cura di Ma­riantonia Liborio, con un’Introdu­zione di Francesco Zambon (Mon­dadori, 2005). Parola che indicava un recipiente a forma di vassoio o di coppa in al­cuni dialetti celto-latini (è super­stite nel valdostano 'grolla'), il Graal assurse a oggetto prezioso e carico di valore sacrale nel romanzo Perceval del trovatore Chrétien de Troyes, attivo in alcune corti principesche franco-orientali della seconda metà del XII secolo. Quello scritto ebbe tanto successo che ne nacque ben presto un vero e pro­prio ciclo cavalleresco presto sviluppatosi in numerose e natural­mente non omogenee 'continua­zioni': insomma, in una serie di soap opera che si diffusero dal Due al Quattrocento per poi scompari­re alla fine del XV secolo.
E si capisce bene perché scompa­rissero: da una parte la Chiesa non aveva mai troppo apprezzato quei romanzi, che parlavano talora un linguaggio mistico-misterico men­tre altre volte erano intrisi d’un am­biguo erotismo, e in cui erano on­nipresenti il Cristo e il Mistero eu­caristico mentre il ruolo dei mini­stri del culto, assenti o quasi, era giocato semmai da eroi cavallere­schi; dall’altra il loro carattere ap­punto fortemente legato all’Euca­restia e all’Adorazione del Santo Sangue del Cristo si scontrava con le radici stessi della riforma prote­stante. Cattolici e protestanti volta­rono pertanto concordi le spalle al mito graalico, che non a caso sa­rebbe ricomparso – ma in un con­testo teistico, esoterico e neopaga­no – soltanto tra Sette e Ottocento, con Schlegel, Scott, Tennyson e Wa­gner.
Ma ancor oggi si stenta a diffonde­re, su questo tema, delle letture e delle conoscenze adeguate. Insie­me con le tesi esoterico-occultiste sviluppate non tanto da personag­gi come René Guénon o Julius Evo- la quanto dai loro nume­rosi 'discepoli' ed epigoni, grande successo hanno a­vuto ad esempio i libri d’un curioso erudito tede­sco, Otto Rahn, wagneria­no e nazista – nonché, sot­to il profilo storico-filolo­gico, gran pasticcione –, innamorato di quel 'Paese pirenaico' nel quale sorge la rocca di Montségur (l’ul­tima fortezza catara, con­quistata solo nel 1244 dai crociati) e che aveva fan­tasiosamente connesso il simbolo graalico con la fe­de catara. Il movimento neocataro, sviluppatosi nel Novecento soprattutto tra le popolazioni franco­meridionali dove forti so­no i gruppi che sognano l’autonomia di un’'Occi­tania' estesa dalla sponda destra del Rodano a Bar­cellona e alla Loira, ha te­so a presentarsi come la fa­cies religiosa dell’irreden­tismo, addebitando alla Chiesa cattolica e alle sue scelte nel Duecento la fine della libertà occitana.
Le cose stanno natural­mente in modo ben più complesso. Tra XII e XIII secolo in Occitania (come anche altrove, ad esempio in Lombardia e in Tosca­na) il movimento religioso cataro (che si presentava come un’istanza di ritorno alla purezza cristiana del­le origini ma era in realtà una vera e propria religione dualista, che contrapponeva il Bene e il Male e scorgeva quest’ultimo in ogni ma­nifestazione della materia, Crea­zione compresa) parve addirittura trionfare, sradicare la Chiesa dalle sue fondamenta e imporre una mo­rale e un assetto socio-religioso nuovi. Contro questo pericolo – che nel suo odio per tutto quel che fos­se materiale si configurava sostan­zialmente come una vera e propria religio mortis: e che pure aveva sa­puto attrarre trovatori e giovani a­manti dell’eros e addirittura fauto­ri di un’indiscriminata libertà ses­suale – la cristianità del primo Due­cento fu costretta a difendersi: e, falliti gli strumenti della persuasio­ne e della rievangelizzazione, si u­sarono quelli, spesso spietati, della crociata.
Del catarismo e della 'crociata de­gli albigesi', che sradicò l’eresia ma desolò la Francia meridionale nel­la prima metà del Duecento, Michel Roquebert è oggi uno dei maggiori studiosi. Non stupisce quindi che egli sia autore di un libro come I ca­tari e il Graal. Il mistero di una gran­de leggenda e l’eresia albigese, nel quale si affronta di nuovo il tema del rapporto tra Graal e catarismo rovesciando completamente le te­si care al Rahn. Data l’estrema com­plessità del 'ciclo' graalico e l’ete­rogeneità di molti degli autori dei romanzi che lo compongono, è ov­vio che all’interno di alcuni di essi esistano anche elementi culturali e filosofici di tipo eterodosso e ten­tazioni gnostiche, come ha per e­sempio dimostrato il nostro Fran­cesco Zambon, studioso finissimo di uno dei principali autori di ro­manzo graalico, Robert de Boron. Ma ciò non vuol affatto dire che vi fossero contaminazioni tra Graal e catarismo.
Al contrario: la chiesa del Duecen­to dovette affrontare una durissima offensiva spiritualista, mossagli contro da una parte da Gioacchino da Fiore con la sua profezia della futura 'età dello Spirito Santo', dal­l’altra dal catarismo che, con la sua neomanichea contrapposizione di spirito e Materia, finiva con l’attac­care alla radice l’Incarnazione e il Mistero eucaristico. Ebbene: i ro­manzi del Graal furono – esatta­mente al pari della cattedrale d’Or­vieto, eretta per onorare un mira­colo eucaristico – parte della con­troffensiva cattolica incentrata sul cristocentrismo, sul Cristo Dio e Uomo. Roquebert riesce a dimo­strarlo con impeccabile logica eru­dita e con grande eleganza, siste­maticamente utilizzando i testi dei romanzi graalici duecenteschi. E con ciò riconduce all’ortodossia cattolica una grande espressione letteraria e, insieme, mitica, della nostra letteratura. Le radici del­l’Europa, in quanto cristiane, sono anche graaliche. La sia pur artisti­camente parlando sublime mistifi­cazione wagneriana viene sma­scherata in pieno.

Michel Roquebert, I CATARI E IL GRAAL, Il mistero di una grande leggenda e l’eresia albigese, San Paolo. Pagine 254. Euro 22,50

«Avvenire» del 22 dicembre 2007

Perché Mussolini volle sfidare l’antica Roma

Ideologie «Fascismo di pietra» di Emilio Gentile
di Dino Messina
Il 9 maggio 1936, quando Benito Mussolini annunciò nel celebre discorso davanti a una folla tripudiante la «riapparizione dell’impero sui colli fatali di Roma», il processo di costruzione dello Stato totalitario era arrivato al suo apice. Nel nuovo modello di civiltà un ruolo notevole veniva attribuito al mito della Roma antica. In esso non erano importanti soltanto le parole e i riti, ma anche la costruzione di un’immagine totalmente diversa da quella dell’Italietta liberale e in cui i destini universali della Terza Italia dovevano rispecchiarsi. Il regime, ci racconta Emilio Gentile in questo nuovo e avvincente saggio uscito da Laterza, non era soltanto retorica, ma anche pittura, scultura, architettura, urbanistica. Sicché, come dice il titolo del volume dello studioso che si conferma il vero erede italiano di George Mosse, si può parlare di un Fascismo di pietra. Attento, come lo fu lo storico tedesco, agli aspetti dell’estetica del potere che vanno letti in maniera multidisciplinare e trasversale, superando quando è il caso, come la migliore storiografia ha dimostrato, gli stereotipi di destra e sinistra e superando anche alcuni luoghi comuni, secondo cui il fascismo sarebbe stato soltanto vuota retorica. Non si capisce il fascismo, afferma Gentile, se non si comprende il suo mito della romanità, attraverso il quale costruire una nuova civiltà imperiale, che non aveva nulla da invidiare a quella di Augusto. Non si trattò soltanto di una fabbrica di cartapesta, perché questa ideologia fascista venne letteralmente pietrificata e oggi possiamo vederla e, perché no, ammirarla nei palazzi dell’Eur, negli spazi e nelle statue del Foro Italico, all’origine Foro Mussolini, nei tanti edifici che non solo a Roma rappresentano il segno più forte dell’architettura italiana novecentesca. All’inizio di un percorso di lettura ricco di sorprese, scopriamo innanzitutto che il fascismo non nacque con il culto della romanità. Roma era assente nel programma del 1919 e in quello del 1920, la stessa «marcia» del 28 ottobre 1922 si svolse nel segno del disprezzo per la capitale, sede, come scriveva una giovane camicia nera toscana, «della vecchia Italia indolente, del Vaticano, delle ambasciate, dei pezzi grossi, della porchetta arrosto e del tira a campà». Sentimenti simili doveva nutrire Mussolini nel 1923, quando disse che la città andava «voronofizzata», alludendo al celebre medico Serge Voronoff che faceva cure ringiovanenti somministrando ormoni di scimmia. La cura Voronoff per Mussolini era il piccone. Così durante il suo regime Roma fu sventrata per dare spazio alle vestigia antiche, e ricostruita. Centocinquantamila persone appartenenti alle classi più umili furono trasferite dal centro alla periferia. Sicché un viaggiatore francese come Emil Schreiber poteva scrivere già nel 1932 che la Roma medievale e rinascimentale, come l’avevano conosciuta i turisti prima del fascismo, era scomparsa. Guai a pensare tuttavia che il culto fascista di Roma fosse un culto passatista. Perché storia e archeologia erano il serbatoio per attingere materiali finalizzati alla costruzione di una ideologia e di uno Stato proiettati nel futuro. Allo stesso modo, osserva Gentile, «al mito fascista della nuova romanità aderirono non soltanto architetti e artisti che avevano il culto della tradizione, ma anche i più giovani fautori dell’architettura razionale e di un’estetica della nuova romanità fascista, che fosse ispirata da una dinamica e spregiudicata modernità». Lo stesso Mussolini in più di un’occasione si schierò pubblicamente «in favore dell’architettura razionale e incitò gli artisti a creare uno stile fascista che fosse assolutamente moderno, anche se spesso cedette, specialmente dopo la conquista dell’impero, alle pressioni dei sostenitori del classicismo». Gli artisti e gli architetti protagonisti di questa rivoluzione visiva si chiamavano Enrico Del Debbio, Mario De Renzi, Adalberto Libera, Gaetano Minnucci, Luigi Moretti, Giuseppe Pagano, Mario Ridolfi, Mario Sironi. Su tutti svettava Marcello Piacentini, «uno dei maggiori artefici della Roma mussolinea». Il fascismo avanzava dunque attraverso leggi e discorsi, nei mass media e nelle liturgie collettive e si imponeva anche con la rivoluzione urbanistica. Uno degli strumenti di questa nuova estetica del potere furono le Mostre della rivoluzione fascista, che rappresentavano «eventi di culto, concrete esperienze di sacralizzazione della politica». Il vertice fu raggiunto con i lavori per l’esposizione universale del 1942. Evento atteso e mai avvenuto. Tuttavia nel quartiere dell’Eur ancora oggi possiamo studiare la prima realizzazione di quella nuova Roma imperiale, proiettata nel futuro, che doveva fare concorrenza alla vecchia capitale.
«Corriere della sera» del 4 dicembre 2007

Accelerare il divorzio fa male ai matrimoni

Una pratica da sbrigare in sei mesi
di Giacomo Samek Lodovici
La commissione Giustizia ha adottato come testo base un articolato del senatore del Pd, Massimo Brutti, che ha nell’articolo 1 il suo punto saliente: per ottenere il divorzio basta un solo anno (rispetto ai tre attuali) e questo accorciamento vale ugualmente per le coppie con e senza figli.
Brutti ha fatto intendere che si potrebbero anche abbreviare i tempi a soli sei mesi, nel caso in cui non ci siano figli ed entrambi i coniugi vogliano consensualmente prendere ognuno la propria strada.
Lasciando gli aspetti giuridici agli specialisti e soffermandoci invece su quelli etici e sociali, dobbiamo rimarcare che questa proposta di legge é molto grave. Il divorzio, contrariamente a quello che ritiene la maggior parte delle persone, è una pratica moralmente sbagliata (diversamente dalla separazione che, in certi casi, è moralmente lecita) già per la ragione (senza bisogno della fede), cioè dal punto di vista laico. Poiché non abbiamo qui lo spazio per argomentarlo, possiamo almeno sottolineare che un’accelerazione delle procedure di divorzio è gravemente dannosa, sia nel caso che ci vadano di mezzo dei bambini, sia nel caso in cui non ne siano nati.
Quando ci sono dei bambini, essi sono le principali vittime del divorzio. Decine di studi rilevano la sofferenza e, spesso, anche le patologie psichiche provocate nei figli dal divorzio dei loro genitori. È perciò già sconcertante che la proposta di legge non faccia alcuna differenza, nel concedere l’accorciamento dei tempi per il divorzio, tra coniugi che hanno bambini e quelli che non ne hanno.
Inoltre, una norma che abbrevia l’iter del divorzio accorcia proporzionalmente anche i tempi per un ripensamento e per una riconciliazione, che è possibile sia tra coniugi che vivono insieme, sia tra coniugi che vivono già separati. Infatti, anche i separati a volte si riconciliano: è difficile ma non impossibile.
Secondo una ricerca di P. Fagan, negli Stati Uniti sarebbe del 20% la percentuale dei separati che si riappacifica. Quale che sia questa percentuale, resta il dato di fatto: alcuni coniugi riescono a superare le divergenze ed a rilanciare il loro matrimonio, con grande beneficio per i figli.
Se invece non ci sono tempi di ripensamento, i divorzi proliferano. In Spagna, Zapatero ha ridotto i tempi del divorzio a soli tre mesi, cioè ha quasi cancellato i tempi per una riappacificazione. Risultato: nel 2006 i divorzi in Spagna sono aumentati del 74,3% rispetto al 2005. E l’aumento è particolarmente significativo nelle coppie che hanno divorziato prima di un anno di matrimonio, che sono aumentate del 330,6% rispetto al 2005.
Ma siamo decisamente contrari al divorzio rapido anche perché le leggi, non bisognerebbe mai dimenticarlo, non si limitano a fotografare una situazione sociale ed a normarla, bensì hanno un potente impatto pedagogico e creano mentalità e costume. Una legge come quella proposta da Brutti, se verrà approvata, avrà sicuramente l’effetto di indebolire la percezione sociale del valore di un impegno indissolubile, o, per lo meno, a lungo termine, come quello del matrimonio, perciò lo indebolirà. Come si è visto in Spagna, il divorzio rapido rafforza la concezione opposta, quella per cui il matrimonio sarebbe un impegno molto labile.
Con questa legge, come anche coi Pacs-Cus, lo Stato darebbe un pessimo messaggio ai giovani (e ai meno giovani): 'che voi facciate delle scelte impegnative, o che viviate in rapporti a tempo determinato e con «clausola di rescissione», per me è lo stesso'.
«Avvenire» del 21 dicembre 2007

L’amore nel Medioevo, tra natura ed «estatica»

di Bianca Garavelli
Amore è parola molto familiare nella nostra vita quotidiana, al punto da essere abusata. Difficile da definirsi, e spesso chiamato in causa invano, nel migliore dei casi l’amore è pensato come un sentimento, in primo luogo tra un uomo e una donna nel nucleo fondamentale della famiglia. Quindi è un tema non trascurabile anche dal punto di vista relazionale e sociale, non certo da relegare nell’ambito della letteratura e del cinema rosa. Nelle feste natalizie potremmo dedicare del tempo a chiarirci un po’ le idee, partendo da lontano: dalle due grandi definizioni dell’amore elaborate dai più autorevoli filosofi del Medioevo, che hanno influenzato tutta la nostra cultura, e su cui si dovrebbe fondare anche l’Europa di oggi. Fino a scoprire che potremmo avere ancora oggi una vera e propria cultura dell’amore, se tornassimo alle nostre origini. Pierre Rousselot, autore di questo Il problema dell’amore nel Medioevo, saggio specialistico e rigoroso, eppure illuminato da una chiarezza che non semplifica ma rende limpide le idee, era un gesuita francese noto per i suoi studi sul tomismo e sulla filosofia dell’amore. Anzi è considerato a sua volta alle origini della teologia contemporanea.
Esempio di coerenza fra pensiero e vita, Rousselot visse senza risparmiarsi, fino a chiedere, durante le operazioni militari della Grande guerra in cui era impegnato a soccorrere i caduti sul campo, di essere mandato in prima linea. Muore nell’aprile del 1915, anche lui sul campo, a soli trentasei anni, e il suo corpo non viene mai ritrovato. Questo libro rappresentava la sua 'piccola tesi' per il dottorato in Lettere, presentata nel 1908, e non è stato ancora studiato come i più noti L’intellettualismo di san Tommaso e Gli occhi della fede, già tradotti in Italia. Ora però Domenico Bosco lo cura con molta precisione e ricchezza di riferimenti storici mostrando come in realtà sia altrettanto importante. Rousselot distingue due concezioni, entrambe alla base di molta letteratura medievale: per esempio, della poesia teologica del Paradiso di Dante. La concezione 'fisica', nel senso di 'naturale', che ritiene fondamento di ogni forma d’amore l’amore di sé, senza che sia inconciliabile nemmeno con l’amore per Dio. Di questa prima tesi sono fautori Ugo da San Vittore, san Bernardo di Chiaravalle, e soprattutto san Tommaso d’Aquino, il 'dottore angelico' in cui Rousselot individua anche un continuatore delle dottrine neoplatoniche e non solo un seguace di Alberto Magno. La seconda concezione è quella 'estatica', più difficile da delimitare con precisione: è in autori, tra cui ancora san Bernardo nella seconda parte della sua vita, che ritengono l’amore una forza in grado da portare 'fuori da se stesso' il soggetto amante, in netto contrasto con l’amore per sé. Questa forma di amore è dunque molto violente e libera, perché non permette compromessi e non ha altra ragione 'se non se stesso'. Osserva Bosco che queste due modalità dell’amore sono state codificate sostanzialmente nello stesso modo da Lacan, soprattutto nel saggio Ancora. Ma andrebbe approfondita a mio parere una sua osservazione in nota: Dante sceglie alcuni dei teologi oggetto dell’analisi di Rousselot come personaggi del suo Paradiso, soprattutto san Bernardo, di cui sembra addirittura cogliere, in anticipo di secoli, il dualismo fra concezione 'fisica' ed 'estatica' che il teologo francese individua nella sua evoluzione spirituale. Infatti il vegliardo dall’aria saggia e rassicurante che Dante sceglie come suo cicerone della candida rosa dei beati, si premura di sottolineare l’aspetto amoroso del viaggio verso Dio, ancora prima della celebre preghiera alla Vergine madre, e a mostrarne al tempo stesso i lati umani, e perciò 'naturali'.

Pierre Rousselot, Il problema dell’amore nel Medioevo, Morcelliana, pp. 242, € 18,00

«Avvenire» del 22 dicembre 2007

Una bambina contro Stalin

In tv La storia del dirigente pci denunciato come spia fascista da alcuni compagni: prima salvato da Gramsci, morì fucilato nel ‘38
di Valerio Cappelli
Fiction sul comunista Gino De Marchi Ucciso in Urss, sua figlia «svelò» il delitto
La sua «Resistenza» è durata tutta la vita. Era una ragazzina di 13 anni, Luciana De Marchi, quando decise di cercare suo padre. Gino De Marchi era un militante del partito comunista. Nel 1921 fu arrestato con l’accusa di essere una spia fascista nell’Unione Sovietica. Liberato per intervento del suo amico Antonio Gramsci, finì di nuovo nei guai fino alla morte per fucilazione nel 1938. Fu denunciato dai comunisti italiani, alcuni erano suoi amici. La sua vita è stata un romanzo. Ne sarà tratta una fiction in due puntate che il regista Alberto Negrin col produttore Carlo Degli Esposti stanno trattando con Raiuno. Luciana si esprime in un italiano accidentato. È una donnina minuta di 80 anni. È nata in Russia, sposata con una figlia, vive tra Mosca e Fossano, in provincia di Cuneo, il paese del padre: «Sognavo di conoscere la sua famiglia». Lo ama ancora come se fosse vivo, i ricordi sono intatti, 69 anni dopo. Mentre non sembra incuriosita su chi sarà chiamata a interpretare lei, ha le idee chiare sul volto di Gino: «Fiorello mi ricorda mio padre, spiritoso, un talento multiforme, anche lui cantava, ballava. Vorrei che fosse lui il protagonista». «Vedo bene anche Pierfrancesco Favino, il fascino, la dolcezza, l’umanità», dice il regista. Serviranno tre attrici per coprire l’intero arco di vita di Luciana. Per il periodo di mezzo, quello della ricerca ossessiva, si pensa a Nicole Grimaudo o a Raffaela Rea. Il film è tratto dal bel libro che Gabriele Nissim ha scritto per Mondadori su questa vicenda: Una bambina contro Stalin. Nella trasposizione sullo schermo sarà aggiunta una parola: Una bambina italiana contro Stalin. Nissim e Luciana sono stati ricevuti al Quirinale dal presidente Napolitano: «Aveva letto il libro, interveniva, era interessato alla questione dei delatori». Napolitano e Fassino a sinistra hanno rotto il silenzio colpevole dell’ex partito comunista. A Torino negli anni Venti c’era stata l’occupazione delle fabbriche. Le organizzazioni giovanili comuniste avevano nascosto delle armi. Gino viene beccato, sotto torchio rivela il nascondiglio di due mitragliatrici e fa il nome di un complice sfuggito ai carabinieri. «Un errore di gioventù - dice Nissim - che va inquadrato nel clima dell’epoca. I militanti torinesi lo considerano un traditore, una spia». Si fa strada l’idea del nemico infiltrato, si monta un castello ideologico. Il partito lo manda in punizione a Mosca, dove viene subito arrestato «per ordine del partito comunista italiano». Dopo l’intervento di Gramsci viene mandato al confine nel Turkestan. Va a lavorare in una comune agricola, chiede di tornare nel partito e di essere riabilitato ma non è ritenuto affidabile, gli resta come una zecca il marchio della spia. «La tragedia umana - dice la figlia - è che mio padre era apprezzato nel suo vero lavoro, regista di documentari di propaganda socialista». «Racconteremo questa storia non dall’alto dei Congressi sovietici - dice Alberto Negrin - ma con gli occhi di Luciana, una persona semplice. Dietro la bambina e poi la donna che cerca suo padre, si scopre la tragedia della Russia di Stalin, dalla formica esce fuori il formicaio: i tradimenti, le delazioni, il cinismo». Alla figlia non dicono che è stato fucilato ma scomparso: «È la prassi per non creare scandalo». Luciana manda una lettera a Krusciov, la risposta è che suo padre è morto di peritonite in un gulag. Chiede il certificato di morte: impossibile trovarlo. Con la caduta del Muro, si aprono gli armadi e Luciana scopre la verità. Ma sua madre dov’era, perché l’ha lasciata sola in tutti questi anni? «Si defilò subito per paura, fu convocata dalla polizia segreta. I familiari dei nemici del popolo dovevano fare abiura. Se mia madre non prendeva le distanze poteva essere condannata. Si risposò subito con un’altra persona... A 14 anni andai a vivere da sola, mi mantenevo come maestra d’asilo. Vennero anche da me, minacciarono di rinchiudermi all’orfanotrofio». Ha fatto l’attrice, ma era sulla lista nera e non fece carriera, tenuta sotto controllo dai pretoriani del regime sovietico. Come quel Grigorij Britikov: «Cercò di sedurmi, mi creò difficoltà nel lavoro. Lo conoscevo da quando ero bambina, lo chiamavo zio; più tardi negli archivi scoprii che fu uno di quelli che al processo testimoniarono contro mio padre». Luciana doveva seguire l’esempio di Morozov, l’eroe popolare che denunciando il padre, colpevole d’aver venduto del grano ai contadini ricchi, scelse il partito. «Io rifiutai. Ogni tanto bussavano alla mia porta. Come quella volta che bruciarono la stazione della metro: ha un alibi?, dov’era quel giorno?». Dove trovò la forza a 13 anni di combattere contro il Golia rosso? «Non ero così consapevole, ero trascinata dalla forza dell’amore. Anche se era proibito, ho tenuto tutto con me, lettere, documentazioni, foto. Mio padre era alto, bello. L’ho cercato per tutta la mia esistenza. La sua storia continua a essere rimossa».
«Corriere della sera» del 5 dicembre 2007

Il doppio peso della censura

Un volume sulla storiaccia di Rignano è sparito dalle librerie nel silenzio generale
di Pierluigi Battista
Ma come, sequestrano un libro, imbavagliano un giornalista, e nemmeno l’ombra di uno dei soliti, stentorei comunicati della Federazione nazionale della stampa? O almeno una dichiarazione indignata dell’Ordine dei giornalisti, solitamente così loquace, statutariamente aduso al pronto intervento per la difesa della libertà di stampa? Eppure è proprio così. A un giornalista de Il Foglio, Claudio Cerasa, hanno fatto sparire dalle librerie il suo lavoro Ho visto l’uomo nero (edito da Castelvecchi), dedicato alla storiaccia di Rignano Flaminio, alle contorte ed eterodirette deposizioni dei bambini, al clima da stregoneria oscurantista, da incubo, da magia nera, da caccia alla maestra, da inquisizione in cui questa storiaccia si è degradata. Però il sequestro di un libro rigoroso e documentato appare come un fatto normale, non meritevole della pur minima reazione: nemmeno una goccia di quell’oceano di sdegno che in altre occasioni ha accolto censure, intimidazioni, intimazioni al silenzio. Ma perché? O forse non è più il caso di chiedersi perché. È cosi: punto. L’adozione di un doppio standard di comportamento, di un doppiopesismo frutto, ancor più che di una costruzione razionale o di un’argomentazione concettualmente difendibile, di un puro istinto tribale, di un’inconsapevole e irriflessa propensione all’ipocrisia e all’incoerenza, oramai non prevede nemmeno l’omaggio alle buone maniere, un soprassalto di dignità capace di salvare la forma, se non la sostanza. Almeno far finta di protestare per lo stesso, identico motivo per cui si è protestato fino a un attimo prima a favore di un membro titolato della tribù: niente. Almeno un piccolo sforzo per apparire vicini a un minimo di equanimità: niente di niente. Se in tribunale condannano con evidente spirito persecutorio Giorgio Forattini, uno si immagina almeno che gli organi preposti alla salvaguardia solenne della libertà di satira si riuniscano e confabulino così: «Forattini sarà pure un destro reazionario, ma di professione fa il satiro. Abbiamo detto e stradetto che la satira è sacra e intoccabile e che chi la tocca è un mascalzone. Ergo, facciamo un comunicato di blanda solidarietà a Forattini. Controvoglia, distrattamente, ma ci tocca farlo». Qualcosa del genere, tanto per darsi un tono di indipendenza di giudizio, si poteva dire. E invece no, neanche questo. Il doppio standard è diventato una seconda natura, un automatismo mentale, un’ovvietà inconscia. E dunque, silenzio totale, mutismo assoluto. E se poi sequestrano un libro di un giornalista su Rignano, la cosa non sembra riguardare i sunnominati organi preposti. Un libro che fa a pezzi un’inchiesta fragile, sbilenca, smentita, come si è appurato in questi giorni, in punta di fatto e di diritto; un buon lavoro di ricostruzione documentaria, la descrizione di un clima intossicato dove si fabbricano i nuovi mostri: cancellato, costretto a marcire nelle cantine di un editore ingenuo e temerario. Con l’editore e il giornalista che si staranno chiedendo come acquisire quel quarto di nobiltà necessario a mobilitare gli organi preposti della categoria, obbligatorio per non sentirsi dei paria buoni soltanto a suscitare un’indignazione di serie B, che lascia indifferente la nomenklatura del doppio standard.
«Corriere della sera» del 17 dicembre 2007

Botticelli, il segreto svelato

Il capolavoro del ‘400 interpretato da Giovanni Reale con un video di Elisabetta Sgarbi
di Pierluigi Panza
«La Primavera» raffigura la nascita dell’Umanesimo
Negli anni Ottanta del XV secolo Sandro Botticelli dipinse «La Primavera», un tempo a Villa di Castello dei Medici e ora custodita agli Uffizi di Firenze. L’enigmatica tela di due metri per tre raffigura nove personaggi in un boschetto che sono sempre stati oggetto di decifrazione. I primi interpreti cercarono di connettere la scena a fatti storici. E in questa direzione si sono mossi, ancora nel Novecento, Mirella Levi D’Ancona e il Lightbown, che nel 1978 avanzò l’ipotesi che si trattasse della raffigurazione delle nozze tra Lorenzo di Pierfrancesco de Medici (committente dell’opera) con Semiramide Appiani. Altri hanno cercato di individuare nei personaggi raffigurati le diverse stagioni dell’anno; altri diverse città con al centro «Florenza». Ma da quando, nel 1893, il padre della critica iconologia Aby Warburg indirizzò l’interpretazione dei personaggi come figure allegoriche che rappresentavano discipline o stati d’animo, si moltiplicarono le letture che cercarono di connettere la scena a una rappresentazione di idee contenute in qualche libro di iconologia. Warburg diede un nome ai personaggi: (da sinistra) Mercurio, le tre Grazie, Cupido, Venere, Flora, Cloris e Zefiro. Seguirono le letture dei suoi allievi Ernst Gombrich (1945), Erwin Panofsky (1961), Edgard Wind (1985)... A esse si aggiunge ora quella del filosofo Giovanni Reale che, in un libro dotato del pregio della chiarezza, è in libreria unitamente a un dvd realizzato da Elisabetta Sgarbi (con fotografia di Elio Bisignani e musiche di Roberto Cacciapaglia) che ne esemplifica artisticamente la lettura. Reale si muove sulla base dell’ermeneutica e della critica iconologia. Riparte dalle recenti interpretazioni di Claudia La Malfa e Claudia Villa, le prime a individuare nelle Nozze di Filologia e Mercurio, un testo del V secolo scritto dal retore Marziano Capella circolante nella Firenze di fine Quattrocento, la fonte principale di Botticelli. Questo testo è una sorta di enciclopedia delle arti liberali (quelle del trivio: grammatica, dialettica, retorica, e quelle del quadrivio: geometria, aritmetica, astronomia e musica), che verrebbero in parte raffigurate dal Botticelli. Questa fonte, però, secondo Reale, è sufficiente per interpretare la metà sinistra del quadro; per l’altra parte Botticelli si sarebbe rifatto anche a Platone e al suo illustre traduttore Marsilio Ficino. Nel complesso, la scena rappresenterebbe il «matrimonio» tra Filologia e Mercurio, insieme con le ancelle Retorica e Poesia ispirata dal demone ficinian-platonico del «divino furore» e nella quale Filologia, Retorica e Poesia sono gravide. Il boschetto in cui è ambientata la scena sarebbe il Giardino di Zeus del Simposio e il primo personaggio da sinistra è ovviamente (per i calzari alati) Mercurio, ed è voltato come il Mercurio retrogrado, poiché ritenuto un pianeta che aveva un moto invertito, mentre fende le nubi con il caduceo e un dito alzato simbolo di trascendenza. Le tre donne che danzano insieme sono le Tre Grazie, che Capella presenta due volte nel libro in connessione alla cerimonia matrimoniale tra Mercurio e Venere. Per Reale non rappresentano, però, le arti liberali, ma tre caratteri: voluttà, castità e bellezza. La donna al centro (di solito Venere) è per Reale la Filologia, promessa sposa di Mercurio. Ciò è determinato nel testo di Capella sulla base di complicati calcoli aritmetici. Con la mano destra indica lo sposo come nel dipinto di Villa Lemmi (sempre di Botticelli) e i suoi calzari di papiro sono per renderla degna agli dei. Quanto a Cupido rappresenta l’amore per la Sapienza che lega Filologia a Mercurio. La donna partoriente ricoperta di fiori non sarebbe Flora o Cloris, bensì l’allegoria della Retorica. Come già individuato da Claudia Villa sulla base di un documento del XII secolo, la Retorica veniva allora allegorizzata a Firenze anche con un velo fiorito (i «flores retorici» dei quali parlano Alberico da Montecassino, Bono Giamboni e Guidotto da Bologna). Inoltre, la donna sembra parlare a chi osserva la tela, e la retorica è proprio l’arte del dire. La coppia di destra, infine, è formata da un demone che ispira una donna, la Poesia. La figura alata, tradizionalmente identificata con Zefiro, è per Reale Eros in forma di demone, come lo presenta Platone nel Simposio. Ma il demone Eros, nell’interpretazione di Ficino (che ai tempi di Botticelli viveva presso i Medici) è il «divin furore» che ispira la poesia. E la forza generatrice del demone è allegorizzata dalla gravidanza delle donne della parte destra del quadro. L’interpretazione di Reale e della Sgarbi, infine, si estende anche ai singoli fiori e alle mele dorate per descrivere i rapporti tra Filologia e Mercurio. «La Primavera» rappresenterebbe dunque l’imporsi della nuova cultura dell’Umanesimo basata su Filologia, Retorica (ancella della prima) e Poesia (nuova ancella) su quella medioevale del Trivio e del Quadrivio, come avvenne a Firenze alla fine Quattrocento. Si tratta di una lettura critica che si aggiunge e trasforma alcune ultime interpretazioni dell’opera e, come tale, è anche una delle più perfezionate, sebbene ci sarebbe anche su questa da porre quesiti: ad esempio, visto che Marziano afferma essere la pronuba preceduta da Concordia, Fedeltà, Pudicizia perché le Tre Grazie non rappresentano questi ma altri stati dell’essere? Per dirla con il filosofo Gadamer, «La Primavera» è una classica opera aperta che «si consegna alla distesa dei tempi». Seguiranno altre impetrazioni dopo di noi e proprio queste ulteriori interrogazioni continueranno a fare di sei metri quadrati di tela dipinta un’opera d’arte apprezzata, che è tale proprio in quanto si sottrae costantemente al pericolo dell’oblio.

Il libro e dvd di Giovanni Reale ed Elisabetta Sgarbi, Le nozze nascoste (Bompiani, pp. 336, euro 37), sarà presentato domani, alle 19, allo Spazio Oberdan (viale Vittorio Veneto 2 Milano) da Enrico Ghezzi e Vittorio Sgarbi.

«Corriere della sera» del 5 dicembre 2007

26 dicembre 2007

Santo Natale 2007

Carissimi, augurandovi un ottimo Natale e un felice 2008, vi lascio questo articoletto del 'solito' Gramellini, che, come sapete, è uno dei preferiti. Un po' buonista, ma a Natale ci sta bene, no?
Auguroni a tutti
FT
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Il bene che non muore
di Massimo Gramellini

Da un cattivo esempio potrà mai nascere un buon esempio? La sera di Natale di tanti anni fa, il giovane disoccupato Larry Stewart entrò in una chiesa di Kansas City per chiedere l’elemosina. Tese la mano a una signora ingioiellata che stava pregando Dio con spettacolare fervore. «Torna domani», lo liquidò lei, sprezzante. Larry decise che non avrebbe più chiesto l’elemosina a nessuno ma che l’avrebbe fatta a chiunque, per evitare agli altri l’umiliazione di subire un rifiuto come quello che aveva appena incassato lui. Diventato un piccolo imprenditore televisivo, invece di gettarsi in politica si incollò la barba di Babbo Natale sulla faccia e cominciò a dispensare biglietti da 5 dollari ai miserabili della città. Intanto i suoi affari crebbero e con essi i bigliettoni del Babbo misterioso: da 10 e poi da 100 dollari. Finché un giorno gli trovarono un tumore all’esofago e Larry dovette dare fondo a tutti i risparmi per le cure. Il suo cruccio era di morire senza lasciare nulla. Perciò si svelò in pubblico: ammise di essere il Babbo segreto, implorando chiunque fosse ricco come un tempo lo era stato lui di prendere il suo posto, il prossimo Natale. Il prossimo Natale sarebbe questo. Larry adesso è una foto che sorride su una lapide del camposanto di Kansas City. Ma da alcuni giorni in città c’è un Babbo misterioso che si aggira fra i poveri, distribuendo banconote da 100 dollari. Morale della favola vera: il bene può nascere da un buon esempio come da uno cattivo. Perché la qualità dell’esempio è importante. Ma quella del cuore che lo osserva, di più.
«La Stampa» del 22 dicembre 2007

23 dicembre 2007

Una nonna armena orgoglio e pregiudizio nella Turchia d’oggi

Memorie Fethiye Çetin e il massacro rimosso di un popolo
di Cristina Taglietti
Un segreto custodito fino (quasi) alla morte. Il sangue «corrotto» di un popolo scomparso, cancellato dalla storia, che scorre nelle vene di una famiglia turca apparentemente «normale» e cioè musulmana. Fethiye Çetin, avvocato di Istanbul molto nota nel suo Paese per l’impegno nel campo dei diritti umani, ha raccolto nel suo libro Heranush, mia nonna, una storia privata, che ricorda quella raccontata da Antonia Arslan nella sua Masseria delle allodole, in grado di dare voce al destino di un popolo perseguitato, quello armeno, e in particolare delle sue donne. Una testimonianza diretta di grande attualità oggi che la tragedia armena del 1915 è al centro del dibattito internazionale da quando il congresso americano, per paura della reazione del governo di Ankara, ha rinviato il voto su una risoluzione che definiva «genocidio» lo sterminio degli armeni. Un’azione «immorale, inumana e disonesta» secondo Fethiye Çetin che però condanna anche le risoluzioni adottate dai parlamenti dei Paesi europei perché «finiscono con il rinvigorire il nazionalismo, influendo negativamente sugli sforzi di dialogo e di memoria che in Turchia sto cercando di fare insieme alle persone che la pensano come me». È uno sforzo di memoria anche il libro che comincia quando la nonna di questa battagliera avvocatessa che ha difeso in tribunale Hrant Dink, il giornalista turco-armeno accusato di «insulto all’identità nazionale» per aver parlato di genocidio (e poi assassinato da un estremista), la chiama da parte e le chiede di aiutarla a rintracciare i genitori e il fratello, emigrati in America. La nonna però è reticente, quasi a disagio, e soltanto dopo varie insistenze rivela: «Io non mi chiamo Sher, mi chiamo Heranush. Io non sono turca, sono armena». E così comincia a raccontare del padre Hovannes, della madre Isguhi, dei fratellini più piccoli, Horen e Hirayr, con i quali, fino al 1915, viveva in pace in un borgo di duecentosette case, che si chiamava Habab. Poi «un giorno, nei mesi più caldi e propizi alla crescita del grano, i gendarmi fecero irruzione nel villaggio... tutti i maschi adulti furono legati a due a due e deportati». Tra loro c’erano anche i nonni, due zii paterni e lo zio materno di Heranush. Nessuno di loro fece più ritorno e della loro sorte non si seppe più nulla. La sera stessa il villaggio fu di nuovo preso d’assalto e alcune ragazze che si erano rifiutate di tagliarsi i capelli e nascondere la loro bellezza sotto abiti disadorni furono portate via. A quel punto la madre di Heranush decide di prendere con sé i figli e rifugiarsi in un villaggio vicino, dove abita la cognata. Ma i gendarmi fanno irruzione anche lì e deportano tutti, uomini e donne, compresi Heranush, sua madre e i suoi due fratelli, nella vicina città di Palu. Poi «separarono gli uomini dalle donne e fecero entrare le donne nel cortile della chiesa. Si udirono grida strazianti provenire dall’esterno». Una ragazzina, salita sulle spalle di un’altra per poter guardare oltre il muro, riferì ciò che vide: «Tagliano la gola agli uomini e li gettano nel fiume». Finito il massacro, venne ordinato a tutti gli abitanti rimasti di radunarsi e partire. Così, per i più fortunati, cominciò l’esilio, per gli altri la lunga marcia verso la fine. C’è chi muore di stenti, chi, come la zia di Heranush, si getta nel fiume con i suoi figli. E poi ci sono i bambini strappati alle famiglie e affidati ai loro aguzzini. Come Heranush, che finisce nella famiglia del caporale Hüseyin, uno dei più clementi tra i gendarmi. Trattata un po’come una figlia, un po’come una domestica, Heranush viene ribattezzata Seher, impara velocemente il turco e diventa una muthedi cioè una convertita (in quanto tale sarà sempre una cittadina di seconda categoria). Soprattutto impara ad amare quell’uomo che è stato tra gli oppressori del suo popolo e della sua famiglia e che però gioisce nel sentirsi chiamare papà. «Capii che la nonna non si era mai interrogata su di lui e che mai l’avrebbe fatto», scrive Fethiye Cetin cogliendo l’essenza di un rapporto di amore-odio, dove la vergogna si mescola con il ricordo delle origini e l’istinto di sopravvivenza prevale su ogni cosa. «Queste ragazze mutilate nel cuore e negli affetti, - scrive Antonia Arslan nell’introduzione - all’oscuro della sorte dei loro cari, costrette a diventare donne in un ambiente ostile ed estraneo, si adattano alle nuove condizioni di vita, e come alberi che il vento ha contorto ma non ucciso, fioriscono in creature forti, in rispettate matriarche». La storia di Heranush ha un tardivo lieto fine, la nipote riesce, quando la nonna è ormai morta, a trovare quella parte di famiglia che era fuggita in America e a ricongiungersi con loro. Per molti altri armeni il lieto fine deve ancora venire: «Un primo passo per la riconciliazione nazionale - dice Fethiye - sarebbe l’uscita della Turchia dal negazionismo. Solo dopo questo turchi e armeni potranno vivere in pace».

Fethiye Çetin, Heranush, mia nonna. Il destino di una donna armena, Alet Edizioni, 12,00 €

«Corriere della sera» del 3 dicembre 2007

«Meglio i Borbone dei Savoia»

Un saggio di Gigi Di Fiore sulla guerra al brigantaggio e altri episodi oscuri
di Antonio Carioti
Nuove polemiche sui torti subiti dal Sud dopo l’unità d’Italia
Non parla male solo di Garibaldi, ma anche di Cavour e di tutta la classe dirigente liberale dell’epoca. Ma gli imputati principali sono i Savoia. Lo dice già il titolo: la Controstoria dell’Italia unita scritta per Rizzoli da Gigi Di Fiore, inviato del Mattino e sperimentato saggista, è una sorta di requisitoria. Non una ricostruzione completa delle vicende risorgimentali (mancano i moti mazziniani, le Cinque giornate di Milano, la Repubblica romana del 1849), ma una rassegna degli intrighi, degli abusi e degli inganni che accompagnarono il processo di unificazione. Lo scopo dell’autore non è però puramente dissacratorio o recriminatorio. A suo avviso, proprio i vizi d’origine del Risorgimento si riflettono sulle difficoltà dell’Italia di oggi, perché i padri fondatori ci hanno lasciato in eredità un Paese zoppicante e sconnesso, ancora segnato dalle cicatrici di quella che, secondo Di Fiore, fu un’operazione chirurgica compiuta senza troppi riguardi. Diversi i capi d’accusa contenuti nel libro. In primo luogo l’unità d’Italia non fu il prodotto di una spinta dal basso, che c’era, ma riguardava piccole minoranze, bensì di una conquista militare compiuta dai Savoia annettendosi gli Stati preunitari e appoggiandosi nei momenti cruciali sulle armi straniere, francesi nel 1859, prussiane nel 1866. C’è di più: il Risorgimento, sostiene Di Fiore, non fu soltanto lotta contro il dominio straniero, ma ebbe anche caratteri di guerra civile, italiani contro italiani, specie nella fase che vide crollare il regno delle Due Sicilie. L’annessione del Sud allo Stato sabaudo, incalza l’autore, avvenne tramite «un’azione ben organizzata» con l’avallo del governo di Torino, la spedizione dei Mille, che poi sfociò in «una guerra d’invasione» quando le truppe di Vittorio Emanuele II penetrarono in territorio Borbonico. Seguì un feroce conflitto tra cafoni meridionali alla macchia ed esercito italiano, denominato impropriamente «lotta al brigantaggio», con eccessi cruenti su cui si soffermano le pagine più impressionanti del libro. Altra scelta disastrosa, continua Di Fiore, fu l’estensione delle leggi piemontesi a tutta la penisola, accompagnata da un accentramento amministrativo estremo, da cui derivarono i tratti autoritari di una dinastia abituata a governare con i prefetti, se non con gli stati d’assedio. Viene quasi da pensare che l’autore consideri i Borbone preferibili ai Savoia, almeno dal punto di vista del Sud, che pagò per l’unificazione il prezzo più alto. La conclusione è che siamo una nazione assemblata male, come del resto studiosi delle più varie tendenze (molti per nulla ostili al Risorgimento) sottolinearono sin dai primi anni dopo l’unità. Rispetto al loro giudizio, Di Fiore aggiunge un’attenzione particolare per le ragioni dei vinti, gli italiani rimasti fedeli agli Stati preunitari, che videro crollare il loro mondo davanti al corso inesorabile della storia.

La caduta del regno di Francesco II di Borbone è uno dei temi principali trattati da Gigi Di Fiore in «Controstoria dell’unità d’Italia. Fatti e misfatti del Risorgimento» (Rizzoli, pagine 463, 19,50)
Di Fiore è inviato del quotidiano «Il Mattino» di Napoli. Ha scritto «I vinti del Risorgimento» e «La camorra e le sue storie»
«Corriere della sera» del 29 novembre 2007

L'URSS rivisitata

Lenin e Stalin al potere: la barbarie come virtù
di Antonio Carioti
Grazie all’apertura degli archivi moscoviti, Andrea Graziosi, nel primo volume della sua storia dell’Unione Sovietica, intitolato L’Urss di Lenin e Stalin (Il Mulino), ha ricostruito il periodo 1915-1945 sulla base di una documentazione vastissima e inedita, che rende il suo lavoro assai interessante e innovativo. L’autore non mostra indulgenza per i bolscevichi, di cui sottolinea i forti limiti culturali e l’assoluta mancanza di scrupoli, che li indusse di fatto, nel processo rivoluzionario, a considerare «la barbarie come virtù». Tuttavia Graziosi è critico verso l’uso del termine «totalitario» per connotare il regime dell’Urss. In particolare, quando si sofferma sulla brutale campagna lanciata da Stalin nel 1929 contro il mondo contadino, che culminò nelle carestie del biennio 1932-33, sostiene che in quella fase il sistema sovietico non funzionò come un «totalitarismo modernizzante», teso a controllare le coscienze, bensì come «uno Stato violento e primitivo, guidato da un despota malvagio». In effetti le repressioni sovietiche furono ben più rozze dello sterminio scientifico attuato dalle SS. Però proprio la riuscita cancellazione dalla memoria della tragedia contadina, su cui insiste Graziosi, dimostra la grande capacità del regime sovietico di condizionare le coscienze. E ripropone il confronto con il tentativo nazista di occultare la Shoah.

«Corriere della sera» del 6 dicembre 2007

Luce oltre la vita, provocazione laica

Riflessioni Intellettuali e collaboratori del «Foglio» si confrontano sul destino e sull’aldilà
Di Antonio Carioti
Credenti e scettici di fronte alla grande domanda rimossa: esiste un «dopo»?
Se la morte è una certezza indiscutibile, sulle sue conseguenze regna invece il mistero. O meglio, ne conosciamo abbastanza bene gli effetti sul piano biologico, ma nulla possiamo dire di verificabile sul destino che attende la coscienza in cui risiede la nostra identità personale. Però non possiamo evitare d’interrogarci, di cercare una risposta almeno provvisoria. Ciascuno a modo suo, inevitabilmente. Mettere per iscritto queste riflessioni, farne patrimonio condiviso, è ciò che Giuliano Ferrara, direttore del Foglio, ha chiesto a numerosi autori (perlopiù firme del suo giornale, ma c’è anche un assaggio del nuovo romanzo di Enzo Bettiza in uscita da Mondadori), nella convinzione che sia utile ogni tanto spezzare con provocazioni inquietanti la superficialità del discorrere sugli eventi quotidiani. Ne è scaturita una serie di quasi cinquanta interventi (per l’esattezza 47, numero in tema con la morte nella Smorfia napoletana), poi raccolti nel volume Appunti per il dopo, che è stato messo in vendita con Il Foglio ed è andato rapidamente esaurito in parecchie edicole. Un successo che certamente è indice di curiosità, come suggerisce la breve introduzione del libro, ma forse anche di un bisogno inappagato. Oggi il problema del «dopo» attira l’attenzione perché viene spesso semplicemente accantonato e rimosso, o comunque trascurato: a volte, denunciano nei loro contributi due credenti di orientamento tradizionalista come Francesco Agnoli e Gianni Baget Bozzo, persino nell’ambito delle istituzioni religiose. Eppure, sottolinea Ruggero Guarini, anche da una prospettiva non confessionale l’aldilà «non si può escludere», tanto meno sostenendo che la ragione non riesce a concepirlo, perché in realtà «assolutamente irragionevole è anche l’aldiquà», cioè l’esistenza della vita intelligente su un minuscolo corpo celeste come la terra, sperduto nell’universo. Allo stesso modo, è l’esperienza stessa del pensiero scientifico, osserva Giorgio Israel, che ci pone a confronto di continuo con il problema dell’infinito, che si tratti dei numeri, del tempo o degli spazi siderali. Un problema non solo conoscitivo ma etico, perché ciò che maggiormente caratterizza la condizione umana, prosegue lo studioso, «è la dolorosa coscienza della finitezza della nostra vita, in un tempo che non riusciamo a pensare altrimenti che infinito, e il desiderio di felicità e giustizia in un arco temporale che non consente la sua realizzazione piena». D’altronde anche l’idea di un giudizio finale che ristabilisca i torti e le ragioni risulta sempre meno plausibile per la mentalità contemporanea, tanto che lo stesso cristianesimo, sostiene il laico e radicale Angiolo Bandinelli, parla sempre più del dopo «come il tempo del trionfo dell’amore, dell’amore luminoso in cui l’anima si dissolve per fondersi con Dio». Una visione che affascina anche il cronista politico Stefano Di Michele, lontano da ogni ortodossia religiosa, ma convinto che, come sosteneva San Martino, Dio ci ami attraverso le creature terrestri che ci vogliono bene. In fondo dice qualcosa di analogo Francesco Ventorino, sacerdote del movimento di Comunione e liberazione, quando sostiene che il «dopo» si trova già «nel presente, nella grandezza del desiderio» di infinito, «ma anche nella bellezza della realtà». Ovviamente, se viene naturale definire il paradiso «posto dell’amore», come fa il direttore di Tempi Luigi Amicone, più arduo è immaginare quale forma possa assumere la dannazione eterna, della quale infatti nel volume del Foglio non si parla molto. D’altronde ci sono teologi, come Hans Urs von Balthasar, secondo cui l’inferno esiste, ma è vuoto. Pensiero consolante, che però a Giuliano Zincone suggerisce, nella chiusa del suo intervento, un’idea impertinente, cioè che ad essere vuoto sia anche il paradiso. Meno convenzionale la prospettiva sostenuta dallo scrittore Walter Siti, secondo il quale non bisogna ragionare in termini di sorte individuale né di singole religioni rivelate. A suo parere, «esiste l’anima collettiva proiettata dalla specie umana sull’universo, ed esistono gli dei che la declinano secondo grammatiche settoriali». D’altronde anche il cattolico Aldo Maria Valli, vaticanista del Tg1, scrive che nell’aldilà gli piacerebbe «incontrare un induista», che possa spiegargli «qualcosa della loro fede e delle loro divinità. Senza impegno e senza il problema del proselitismo. Tanto a quel punto i giochi sarebbero fatti». Ecco, se un timido appunto si può muovere al ricchissimo mosaico di «appunti» messo insieme dal Foglio, è proprio la mancanza di voci collocate al di fuori della cultura occidentale, giudaico-cristiana, laico-secolarista o neopaganeggiante. In fondo non c’è nulla di più universale della morte. Qualche incursione in Oriente, verso l’islam come fra i culti politeisti e le filosofie asiatiche, avrebbe arricchito il panorama. Forse anche alle tradizioni dell’Africa, sempre dimenticata, sarebbe stato possibile chiedere qualche lume. Ma le occasioni di tornare sull’argomento non mancheranno. Delle domande sul «dopo» ci si libera solo quando finisce il «prima».

Il volume «Appunti per il dopo. La carne, la morte e il diavolo nella letteratura del "Foglio"» (pagine 394, nelle edicole a 7,90 più il costo del giornale) raccoglie una serie di interventi comparsi nei mesi scorsi sul quotidiano diretto da Giuliano Ferrara

Da Baget Bozzo a Ceronetti una discussione senza tabù. Numerose e variegate sono le voci del libro «Appunti per il dopo». Ci sono nomi famosi come Gianni Baget Bozzo, Enzo Bettiza, Guido Ceronetti, Ruggero Guarini, Saverio Vertone, Giuliano Zincone. Letterati come Oddone Camerana, Alessandro Piperno e Walter Siti. Comici e musicisti come Maurizio Milani e Giovanni Lindo Ferretti. L’ex direttore dell’Ansa Pierluigi Magnaschi. Ampia la rappresentanza cattolica, con Francesco Agnoli, Luigi Amicone, Massimo Camisasca, Giovanni Gennari, Andrea Monda, Lucetta Scaraffia, Aldo Maria Valli, Francesco Ventorino. Ma non mancano gli ebrei, da Giorgio Israel ad Alessandro Schwed. E i laici: Marco Fabio Apolloni, Angiolo Bandinelli, Daniele Capezzone, Filippo Facci, Roberta Tatafiore. Infine le firme del Foglio: Andrea Affaticati, Pialuisa Bianco, Fabio Canessa, Stefano Di Michele, Camillo Langone, Mariarosa Mancuso, Andrea Marcenaro, Lanfranco Pace, Aldo Piccato, Eugenia Roccella, Marina Terragni, Nicoletta Tiliacos, Duccio Trombadori.
«Corriere della sera» del 9 dicembre 2007