23 dicembre 2006

Vivere secondo giustizia (Andreoli 1)

«Se una legge è falsa perché interpreta male una situazione, condurrà a una giustizia che, pur applicata con rigore, emetterà sentenze lontane dalla verità. Così può esserci benissimo un magistrato che emette una condanna in virtù della legge, mentre sul piano della verità, a cui può giungere per altra via, ritiene la stessa sentenza un errore. Non esiste un tribunale della verità assoluta, se non quello della giustizia divina, che però non appartiene alla realtà in cui viviamo»
di Vittorino Andreoli
1 Se l’igiene di un ambiente si vede dai gabinetti, così il polso di una società lo si ha dalle condizioni delle sue carceri
2 Non posso non ricordare i manicomi criminali che oggi hanno una popolazione ridotta, ma un tempo traboccavano di malati
3 Bisogna avere il coraggio di dire che il denaro pubblico viene davvero amministrato all’insegna dell’ingiustizia e dell’osceno
4 Sono veramente disgustato dopo questo esame, sia pure schematico e altalenante, dello stato della giustizia del nostro Paese
GIUSTO E VERO. Tra giusto e vero esiste una grande differenza in virtù della quale siamo indotti a dire che il giusto non è (sempre) il vero e che il vero soltanto in certi casi corrisponde al giusto.
Tale affermazione, che può apparire paradossale, interpreta invece i due termini nella loro dimensione sociale e nell’applicazione della giustizia umana.
La giustizia che si celebra nei tribunali è il risultato dell’applicazione delle leggi vigenti, e quindi di tutta una serie di scelte formalizzate e promulgate nel tempo. Dunque la giustizia umana non si pone come riferimento essenziale la verità quanto piuttosto le leggi, che non a caso se sono false o sbagliate conducono a un’applicazione continua dell’errore. Una buona giustizia è quella in grado di applicare leggi che tuttavia possono anche essere lontane dalla verità, sia pure intesa entro la logica umana e quindi riferita agli affari terreni e agli accadimenti, ovvero ai soli fatti.
Se una legge è sbagliata e falsa perché interpreta male una data situazione e le persone che vi sono coinvolte, essa condurrà a una giustizia che, pur applicata con rigore, emetterà sentenze magari anche "giuste" ma lontane dalla verità. Può verificarsi il caso di un magistrato che condanna in forza della legge mentre sul piano della verità – cui può giungere autonomamente per altra via – ritiene la propria stessa sentenza un errore.
Non esiste un tribunale che possegga la verità assoluta, se non quello della giustizia divina, che appartiene però al mondo "altro" e non alla realtà terrena in cui viviamo.
Nemmeno è garantita quaggiù la verità dei fatti, cioè l’accertamento della maniera esatta in cui essi si sono svolti, poiché il processo – vale a dire il luogo dove si confrontano accusa e difesa – può far prevalere un’interpretazione di quanto è accaduto diversa da ciò che si è verificato e che è destinato a rimanere fuori da quell’aula nella quale alla base del giudizio (condanna o assoluzione) c’è il solo confronto delle prove.
La giustizia così intesa è qualcosa di contingente che si lega a ciò che si riesce a dimostrare in quel dato momento, in una dinamica giudiziaria nella quale non valgono nemmeno gli atti depositati.
Essi nella loro presentazione ed espressione dibattimentale si inverano nel processo, acquistando cioè durante il suo svolgimento significato probatorio. Risulta fin troppo evidente come anche pubblico ministero, che rappresenta l’accusa, e avvocato della difesa siano figure che condizionano l’esito del processo e quindi la giustizia. Questa non sembra quindi dipendere dal "vero accaduto" ma dal "vero rappresentato", che può anche essere del tutto falso.
Le leggi razziali approvate in Germania nel 1933 e in Italia nel 1938 produssero un’ingiustizia che discriminava ogni cittadino di razza ebraica. La loro applicazione faceva sì che un uomo venisse condannato da una giustizia basata tuttavia su una concezione razzista profondamente errata.
Nei molti Stati in cui è oggi in vigore la legge che prevede la pena di morte, comminata per certi reati, essa viene applicata in maniera ineccepibile dal punto di vista giudiziario ma rappresenta un errore sul piano del significato stesso del giudizio, e quindi su quello della verità. La pena capitale infatti nega che l’uomo abbia la possibilità e il diritto di redimersi, ma soprattutto esclude il dubbio che possa esserci un errore di valutazione, dubbio che dovrebbe sempre essere presente nell’agire umano preservandolo da giudizi nei quali sia in gioco la vita o la morte.
Quanto abbiamo detto finora è il primo elemento che rende i cittadini insoddisfatti della giustizia: tutti noi vorremmo la verità e non semplicemente un’applicazione per quanto corretta di leggi che possono essere state promulgate da chi nell’atto stesso di farlo ha commesso un errore, e magari nemmeno conosce cos’è la verità. Se le leggi – poniamo – sono emanate da un tiranno, questi farà della giustizia (fosse pure indipendente, per garantire imparz ialità di giudizio nei singoli casi) uno strumento che condurrà a realizzare ciò che lui stesso vuole, e che potrebbe essere il sopruso, la vendetta, l’ingiustizia.
Portando la questione all’estremo, si potrebbe dire che la giustizia è un sistema applicativo che può giungere anche a sentenziare falsità ma in modo assolutamente corretto sul piano normativo e formale.
Tutti sostengono di credere nella giustizia. Per i motivi che ho appena illustrato, io affermo invece con grande decisione di non credere affatto nella giustizia ma piuttosto nella verità, prendendo al tempo stesso atto che il giudizio legale non è formulato tanto sulla base della verità ma piuttosto della coerenza con leggi delle quali almeno alcune non solo sono false ma talora persino perverse e strumentalmente asservite a interessi di parte.

IN NOME DEL POPOLO. Un aspetto formale del nostro sistema giudiziario che non riesco a condividere è quello della promulgazione delle sentenze «in nome del popolo italiano». Credo che sarebbe più corretto emetterle in nome della legge, che è altro rispetto al popolo inteso come i cittadini attuali, i quali possono non valutare positivamente leggi spesso datate e che non rispettano le convinzioni di oggi (sempre ammesso che rispecchiassero quelle del tempo in cui sono state emanate).
Mi sembra che quella dei tribunali sia una formula che strumentalizza e non rispetta i cittadini nel loro insieme, quando invece in Francia – ad esempio – le sentenze sono emesse semplicemente «in nome della Repubblica». Non è il solo aspetto del sistema giuridico che non mi piace. Credo che ciò di cui bisogna essere consapevoli è proprio il limite della giustizia e la sua non completa corrispondenza con il bisogno di verità nutrito invece dalla gente, che talora conosce la verità di un fatto mentre vede come il giudizio emesso non sia affatto coerente con essa, o addirittura finisca per stravolgerla.
È proprio il caso di dire che la verità non è di questo mondo, poi ché il solo fatto di doverla dimostrare significa rinchiuderla dentro contesti e schemi operativi che potrebbero da soli rendere impossibile il suo disvelarsi.
Affermato preliminarmente questo limite, occorre però correlare subito la giustizia con il principio di uguaglianza, pretendere che esso venga applicato ponendo tutti i cittadini sullo stesso piano di fronte alla legge e quindi alla giustizia (formula che si trova scritta alle spalle di ogni corte giudicante).
Anche in questo caso però dobbiamo rilevare che le ineguaglianze sono la regola e non l’eccezione. Si può subito notare una differenza nella possibilità di poter disporre (pagandoli) di avvocati difensori più motivati di altri per via dell’entità delle proprie parcelle, e per questo anche più competenti rispetto alla concorrenza. E se pure si è tentato di garantire il diritto alla difesa con gli "avvocati d’ufficio" pagati direttamente dall’organo giudiziario, la disparità di remunerazione mantiene in pieno la differenza tra chi per difendersi può contare sul denaro e chi invece di denaro non ne ha. C’è poi la disparità costituita dal modus operandi del pubblico ministero cui viene affidata la pratica, che può essere molto diverso non tanto sul piano individuale – cosa del tutto naturale e legittima – ma su quello dell’impegno. Ci sono magistrati estremamente attivi e altri che non fanno nulla, o lavorano male. Pare qui vigere quella norma non scritta ma applicata (e che trovo assurda) secondo la quale in nome dell’indipendenza del singolo sia difficile persino per il procuratore capo intervenire sui propri sostituti quanto a metodi, modalità e tempi d’impegno in una causa pendente. Sappiamo che ormai si è arrivati all’assurdo per cui, dati i tempi previsti per arrivare a una sentenza, si lucra sulle disfunzioni della macchina giudiziaria. Tanto che, in casi estremi, si può non pagare un creditore e trovare qualche motivo per contestare il pagamento dovuto, in modo che sia possibile posporlo di un b uon numero di anni: a quel punto le condizioni saranno almeno più favorevoli, e il valore del denaro certamente minore rispetto a quello attuale tenendo conto che gli interessi legali non seguono l’inflazione delle economie di mercato.
Siamo giunti a una situazione in cui già si produce ingiustizia semplicemente gestendo i percorsi processuali, i rinvii, i cambiamenti di giudice competente.
E così paradossalmente la giustizia aiuta a commettere ingiustizia prima ancora di esprimersi.
L’ho detto chiaramente e lo ripeto: non ho grande fiducia nella giustizia, a differenza di quanto molti dicono in modo scontato. Sono anzi spaventato da un apparato in cui può emergere tutto e il suo esatto contrario e in cui è possibile che si consumino le più grandi ingiustizie spesso mascherate da legalità. È la tragedia di una giustizia che riesce a far sembrare legale anche un procedimento assolutamente ingiusto. Questa volta non ho neppure bisogno di aggiungere nulla poiché ognuno di noi ha esempi da fornire, esperienze dolorose da raccontare, mentre ci sono potenti che sembrano seccati dal dover perdere tempo in tribunale con un sistema che probabilmente finirà per non toccarli.
Se le cose stanno così, arrivo a dire che oggi impera il principio dell’ingiustizia e dei «due pesi e due misure». Basterebbe soffermarsi su un luogo che dalla giustizia dipende interamente: il carcere.

CARCERE. Il carcere è un luogo di dolore dove l’ingiustizia si manifesta in modo ancor più drammatico: basti pensare alla differenza di condizione esistente tra un carcerato che ha commesso un reato gravissimo ma che, disponendo di appoggi o di denaro, può contare su un trattamento particolare, e un altro detenuto colpevole di un reato minore ma completamente abbandonato perché non c’è chi si interessi di lui, privo com’è di un nome illustre o che incuta timore e rispetto. Ci sono detenute che scontano una pena con il figlio di pochi mesi, e persone che invece hanno commesso gravi reati ma che non vanno in carcere poiché devono occuparsi di un ragazzino ormai grandicello. Si tratta di ingiustizie evidenti, che producono un senso di rabbia e di impotenza e che inducono a gridare al mondo il torto subìto, ben sapendo però che quasi nessuno ascolta. Penso a situazioni in cui persone in attesa di giudizio restano in carcere senza speranza per anni, e sanno che nulla potrà mutare quella situazione, finendo così per non desiderare più niente, e ammalandosi di carcere.
Se è vero che l’igiene di un ambiente si vede dai suoi bagni, così il polso di una società, il suo vero volto si vede dal carcere. Celle affollate, persone ammassate che brancolano prive ormai di qualsiasi sentimento se non quello del tempo che passa inutilmente. Il carcere si trasforma in luogo dov’è possibile riorganizzare il crimine, dove si può spacciare droga e consumarla, accettando accordi che all’uscita si tradurranno spesso in comportamenti delinquenziali.
In cella si trovano ragazzi che, usciti dagli istituti minorili al compimento della maggiore età, diventeranno semplicemente bolgia, numero, scarto, fattore di decomposizione sociale.
Accanto a questo mondo disperato, sia pure solcato dall’errore, a volte vediamo personaggi eccellenti posti agli arresti domiciliari in dimore sontuose e che cambiano domicilio a seconda della stagione. Personaggi per i quali può accadere persino che la pena non scatti perché una legge calibrata cambia le regole: in quel caso la giusta applicazione è non farli entrare in galera, mentre altri per molto meno sono costretti a rimanervi senza alcun progetto di riabilitazione, senza che nessuno vada a visitarli, poiché sono "nessuno", persone di poco conto, abbandonate anche da famiglie spesso in miseria .
È insopportabile conoscere questa realtà, è insopportabile viverla, ma si finisce per assuefarsi e quindi per condurre un’esistenza da sepolti vivi.
Se la giustizia è tra i segni con i quali si manifesta una civiltà, bisogna concludere che la nostra sta morendo, se non è già defunta da tempo.

FUORI DAL CARCERE. Non so perché, oltre che dal carcere, la mia mente sia tormentata da altri luoghi che lo richiamano pur non avendo nulla a che fare con esso. Sono i luoghi per i vecchi, e in particolare per i vecchi poveri, quelli che non hanno più nessuno. Li chiamano "case di riposo" oppure gerontocomi, ma spesso sono veri e propri lager, cimiteri popolati da sepolti vivi. La vecchiaia pare essere divenuta un reato, che si paga venendo reclusi in simili luoghi disumani sui quali qualcuno persino specula e si arricchisce.
Non posso non ricordare qui i manicomi criminali, che oggi hanno una popolazione ridotta (circa 1200 reclusi) ma che un tempo traboccavano di malati di mente che erano anche delinquenti. Già questo miscuglio è segno d’ingiustizia, poiché se uno è malato dev’essere curato ma se è responsabilmente colpevole di un reato va punito. Questi sono luoghi dove la follia del manicomio si assomma a quella del carcere in una sorta di sintesi che mostra solo quanto la giustizia possa essere precaria e disumana.
Penso anche all’ingiustizia di tanti orfanotrofi dove sono tenuti bambini che avrebbero bisogno di un padre e di una madre e che invece rimangono impacchettati in un luogo dove – pur con tutta la buona volontà – non si potrà mai soddisfare il bisogno fondamentale dell’infanzia. Penso anche all’ingiustizia perpetrata dalle procedure di adozione, che per essere perfette sono lente e complicate. Vorrei aggiungere che a mio avviso non ci si deve limitare a confrontare sistemi adottivi diversi ma andare oltre, fare sempre il confronto tra una certa modalità di adozione e quello che comporta per i bambini crescere senza un affetto specifico, senza la dedizione di una mamma e di un papà, ricordando anche che la cura e l’attenzione non sono un’esclusiva del legame materno e paterno.
Penso anche all’ingiustizia di chi chiede giustizia. Un piccolo fatto di cronaca mi riporta alla mia città, Ver ona. In un quartiere si sono stabiliti moltissimi extracomunitari formando una sorta di ghetto, e ciò ha provocato le proteste in particolare degli abitanti di quella zona. Ebbene, le indagini hanno rivelato che gli immigrati si erano ammassati in quell’area perché solo lì avevano trovato chi affittava loro locali in nero (ecco il vero colore del problema), a prezzi enormi. Si è scoperto inoltre che dei contratti di locazione soltanto uno su otto era regolare. Dunque, abbiamo l’ingiustizia di un affitto sovente spropositato imposto agli extracomunitari, di un contratto fuori legge e non punito, e in più la protesta degli stessi abitanti e proprietari che lucravano su una condizione di povertà e di difficoltà esistenziale.
È inutile poi lamentarsi se in una stanza sono ammassate otto o dieci persone, l’unica maniera per affrontare una spesa di locazione a tal punto alta da costituire un vero e proprio ladrocinio.
Anche fuori dei tribunali dunque l’ingiustizia si accompagna frequentemente a realtà concrete di questo Paese, mentre poche volte si ottiene di far davvero giustizia, evocata semmai per un futuro che non arriva e per giustificare un impegno proclamato ma non attuato.
La giustizia è veramente il paradosso di una società. Non di rado – semplificando – sembra servire solo a dar lustro a tutti coloro che vivono di essa, a partire da quei magistrati che hanno stipendi degni di un Creso e dai legislatori. Le due categorie insieme producono ingiustizia nelle aule di tribunale e nefandezza nelle carceri.

PENA GIUSTA. Sia chiaro, a scanso di equivoci: non discuto la pena né sostengo che non debba esserci, e tanto meno intendo suggerire una mia modalità per attuarla. Affermo semplicemente che si deve trattare di una pena destinata a chi ha commesso un reato ma che non per questo perde l’identità di persona umana da aiutare e portare alla consapevolezza di essere responsabile d’uno sbaglio, piccolo o grande che sia. Mi indigno invece per il modo disast roso e dispendioso con cui sono amministrate le carceri, che devono avere comunque un volto umano: perché è questo che dovrebbe esigere la giustizia.
Mi si dirà che ci sono alcune realtà ben diverse dal panorama che fin qui ho tracciato: lo so e vi dirò che paradossalmente me ne dispiace, poiché sono quelle piccole perle che messe su un abito impediscono di vedere lo stato in cui questo si trova realmente, i suoi strappi e persino la stoffa che è semplicemente tela di sacco, roba buona per raccogliere l’immondizia e non per vestire un’istituzione.
Si deve partire da una giustizia che deve sempre tutelare la dignità della persona, e forse prima ancora risalire alle leggi che la costituiscono e la regolano. Essa deve tener conto di cosa significhi finire sotto processo e trovarsi di conseguenza in una situazione di totale incertezza riguardo al proprio futuro, che può essere scardinato da una sentenza con effetti poi su una o più famiglie. Tutto questo deve portare a processi rapidi e giusti, non a mettere tra parentesi intere vite lasciandole sospese nel dubbio o immerse nell’impossibilità di agire e andare avanti, magari dopo un errore semmai da riparare ma che non deve segnare la fine di ogni speranza.
BONTÀ E CATTIVERIA. Non bisogna confondere la giustizia con la bontà. La giustizia proviene da regole e leggi che devono avere identica applicazione per tutti: a parità di casi va pronunciata la medesima sentenza. La bontà è invece un gesto gratuito del singolo che, basandosi sui sentimenti (e non sulla ragione o le leggi), segue in quel caso e solo in quello un certo comportamento nei confronti di una o più persone dalle quali si sente attratto. In troppi casi «giustizia» e «bontà» vengono confuse, e spesso si invoca la seconda quando invece è sacrosanto chiedere la prima, che è un diritto e non il risultato di una supplica o una preghiera.
Il malcostume di esibire sempre e a tutti i costi il potere di cui si dispone, anche quando non è nelle proprie di sponibilità, rischia di trasformare la soddisfazione d’una legittima richiesta del cittadino (che cioè deriva dalla legge) in un atto di "generosità" (quindi non obbligatoriamente dovuto).
La tendenza a personalizzare sempre ogni cosa ha trasformato non poche istituzioni in una sorta di covi di egocentrismi, luoghi dove si va a chiedere favori piuttosto che a reclamare diritti sacrosanti.
Tutto questo indica che ormai crediamo più nel favore che nel diritto, nella forza del singolo più che in quella della legge. Una norma stravolta diventa sempre più problematica poiché si presta a infinite interpretazioni. Càpita allora di incontrare chi nega subito un diritto richiesto adducendo che non è scontato ma che resta in forse per via di una interpretazione, di una sentenza emanata dalla Cassazione o da un presidente di corte d’appello. In tal caso l’esito di quella richiesta resterà appeso a lui e solo a lui, trasformando quello che era un diritto in un favore che quel personaggio è disposto a elargire solo a condizione che... È a questo punto che scatta la controfferta, esplicitabile in tanti modi: con merce propria, intesa in vario modo, oppure con qualche mazzetta. È sufficiente che sia qualcosa in grado di "pagare" l’applicazione di quel diritto trasformato in regalìa lasciata alla benevolenza del potente di turno. Non saprei citare una sola norma giuridica che non sia discutibile o che stabilisca un diritto senz’ombra di discussione o privo di dubbi. Mi pare che al fondo tutte le norme siano passibili d’interpretazioni diverse: per applicarle, di conseguenza, ci vuole un santo che faccia un autentico miracolo. Ne deriva la persuasione che la legge ci sia, ma è come se non ci fosse. La possibilità di ottenere il riconoscimento di un diritto fondamentale diventa così un atto di benevolenza, per cui la vita del singolo finisce per dipendere da qualche mascalzone che indossa vesti destinate invece a un santo.
Nel nostro Paese abbondano i gesti di bontà, ma è a ltrettanto vero che il loro numero è legato anche alla latitanza di leggi sicure. Molti atti di generosità diventano quindi necessari a causa di un’indeterminatezza di leggi che si trasforma in pane e companatico per più di un gestore della cosa pubblica. Costoro trasformano i diritti del cittadino in traffici privati, con prebende che si riscuotono di soppiatto. Non sarebbe meglio avere più legge e meno gesti di bontà?
Per gli stessi motivi è necessario dire che esiste una grande differenza tra ingiustizia e cattiveria.
Talora l’applicazione giusta di una norma viene considerata trattamento "cattivo" sia perché ci si attendeva un esito differente sia perché in casi analoghi la risposta era stata più benevola.
Nasce da qui quel senso di persecuzione che porta a odiare la legge e a credersi in dovere di fare ciò che si vuole, magari sentendosi eroi quando la si trasgredisce, meglio se in maniera furba, fingendo di essere nella legge e di rispettarla mentre si fa esattamente il contrario. Ci sono professionisti che si dedicano proprio a questo. Alcuni studi di commercialisti sono luoghi in cui si evade il fisco ostentando uno scrupoloso rispetto delle leggi. Vi sono figure professionali che hanno scovato dentro le norme strumenti che permettono di spendere in cose voluttuarie evitando di versare quanto dovuto al fisco, che viene dipinto sotto le sembianze del demonio mentre alimenta le casse dello Stato cui si dovrebbe attingere per realizzare i bisogni di tutta la popolazione: soldi che ci appartengono, spesi da chi abbiamo delegato a farlo.
DENARO PUBBLICO. Bisogna avere il coraggio di dire che il denaro pubblico viene spesso amministrato all’insegna dell’ingiustizia, in certi casi persino dell’osceno. Vedo soldi dati a persone amiche per consulenze che non esistono o che si riducono a quattro fogli battuti al computer; oppure soldi scialacquati in operazioni che servono per mostrare il potere di quel tale politico al solo scopo di rafforzarne la cr edibilità agli occhi d’un piccolo manipolo di "persone forti" o degli stessi elettori.
Al di là di queste miserie, che pure costano moltissimo, ci sono le mini-ingiustizie dello sperpero di denaro che da settori ai quali era stato destinato (e dove ce n’era assoluto bisogno) viene trasferito altrove. Denaro per le guerre, denaro per fare sfoggio di forza, denaro per feste inutili ma che danno soddisfazione, nello stile dei grandi dittatori.
Conosco perfettamente come i soldi destinati alla cura delle malattie mentali siano stati spesso dirottati verso altri impieghi – medici, certo, ma anche del tutto diversi –, ben sapendo che un malato (peggio ancora un matto) non può protestare, o comunque che la sua protesta è sempre un sintomo, lo specchio di un delirio, che dunque non bisogna farci troppo caso, e certo non c’è niente da temere. Diverso invece è l’impegno in quei settori medici che studiano le malattie di cui soffrono spesso anche i politici: negli Stati Uniti la ricerca maggiormente sostenuta è quella delle patologie della prostata, poiché ne soffre la maggior parte dei senatori, ma anche un certo numero di deputati. Analogamente, a giudicare da alcune notizie, sembra che nel nostro Paese l’interesse maggiore vada alle astenie sessuali, forse perché qualche politico sofferente di disturbi in materia sente svilita sul piano affettivo e simbolico la propria potenza invocandone il reintegro.
Perdonate lo sfogo, ma mi sento veramente disgustato al termine di questo mio esame sia pure schematico e altalenante dello stato della giustizia nel nostro Paese, che vedo come un controllo sulla salute d’una civiltà.
È indubbio infatti che senza i princìpi d’uguaglianza e di giustizia anche la più grande delle civiltà – non mi pare il nostro caso – sia destinata ad affondare. Lo confesso: me ne dispiace molto. Proprio per questo sono indignato, atteggiamento che ritengo sia l’unico possibile per chi rifiuta la violenza ma non è disposto a sorridere a chi si è ado perato per trasformare l’Italia in un mercato del malaffare e del profitto più vergognoso. Ecco: l’indignazione permette di affermare con forza questa verità e forse, chissà, di risvegliare dal torpore chi pensa che ormai non ci sia più niente da fare.
Lo sapete? Talvolta lo penso anch’io. Ma almeno mi rimane sempre la forza dell’indignazione.
«Avvenire» del 3 dicembre 2006

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