23 dicembre 2006

Ma la vita non va affidata alla burocrazia

di Eugenia Roccella
Non ci siamo riusciti. Non siamo riusciti a trattenere in vita Piergiorgio Welby, a fargli capire che nessuna vita umana è indegna di essere vissuta, e tantomeno la sua, così ricca di volontà di farsi ascoltare, di intervenire, di aprire il dibattito pubblico su temi scottanti. La sua morte è un gesto politico, come sottolineano i radicali definendo il loro compagno «un grande leader»; ma è anche un fallimento, come sempre è una richiesta di morte. Welby, attaccato al respiratore dal '97, pare che già allora avrebbe voluto rifiutare l'intervento di tracheostomia che gli ha permesso di continuare a vivere. Eppure in questi dieci anni, che gli sono stati regalati (dovremmo dire imposti?) dalla decisione della moglie di salvarlo, ha combattuto le sue battaglie, è stato vivo come non mai. Ci sarebbe piaciuto che Welby avesse scelto, come tanti altri nella sua condizione, di restare in questo mondo, magari anche per lottare contro l'inadeguatezza delle cure palliative nei nostri ospedali, o per porre il problema della dignità della fine. Non è andata così; lui se n'è andato, e a noi restano i dubbi angosciosi, le polemiche politiche, le questioni di diritto.
È stata eutanasia? La legge italiana è stata violata? Se lo è stata, e questo lo accerterà la magistratura, la scelta è stata tecnicamente superflua, ma politicamente consapevole. Welby poteva essere accompagnato a una morte senza sofferenze nel rispetto della normativa attuale. Il paziente ha, in qualunque momento, il diritto di sospendere un trattamento che non desidera, e se questo provoca sofferenze, può ricorrere a tutte le terapie a disposizione (assolutamente efficaci) per eliminarle. Ma Welby ha sempre chiesto una sedazione che lo portasse immediatamente alla morte, e questo è stato fatto. Quel tubo era una forma di accanimento terapeutico? Il Consiglio Superiore di Sanità ha suggerito che no, le cure erano proporzionate alla gravità della condizione del paziente, il quale non era un malato terminale.
Nei prossimi giorni ci si arrotolerà intorno a queste domande e ad altre, ed è facile prevedere che la tragedia personale di Welby diventerà più che altro un caso di accanimento ideologico che impedirà di trattare la questione della morte con la cautela e la delicatezza necessarie.
La prima conseguenza del modo che i radicali hanno scelto per far entrare di forza l'eutanasia nell'agenda politica è il ricorso alla magistratura, perché tutto deve essere chiarito dalla rigidità di un preciso articolo di legge, tutto deve essere normato, e ogni situazione deve essere incasellata in una casistica. È sorprendente come i radicali non si rendano conto che, insistendo in questa direzione, la libertà individuale, che a parole si vuole difendere, verrebbe stritolata dalla spersonalizzazione burocratica. Poiché è impossibile che l'infinita varietà delle storie personali possa rientrare in una legge, si aprirebbe la strada (e già con Welby si è effettivamente aperta) all'interpretazione dei tribunali, all'appello ai giudici. E si è visto, con Terri Schiavo, dove questo possa portare: per esempio a genitori che assistono impotenti all'agonia della figlia, con le forze dell'ordine schierate accanto al letto per impedire persino un'ultima carezza. Non dobbiamo dimenticare che la giustizia americana decise la morte di Terri per rispettare la sua volontà, espressa di fronte al marito; dunque in nome di una libera scelta soggettiva. Non resta che sperare che il gesto estremo di Welby non finisca per ritorcersi contro i malati come lui e come Terri Schiavo.
«Il Giornale» del 22 dicembre 2006

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