23 dicembre 2006

L'etica della polis

«Un cittadino non può delegare al re o al capo del governo decisioni correlate alla vita e alla morte. Come nessun potere potrà mai decidere per la guerra sulla base di una delega elettorale, che non può che essere circoscritta alla gestione della cosa pubblica, la quale non prevede incursioni in materie che lambiscono il mistero e danno un senso alla vita e alla morte. La separazione dei campi e dei poteri attiene quindi ad un principio che si pone a monte di un qualsiasi concordato tra i due poteri, spirituale e politico»
di Vittorino Andreoli

1 Forse è proprio questa la caratteristica essenziale dei princìpi che abbiamo chiamato «di base»: di non essere delegabili
2 La vita umana deve essere rispettata sempre e altrettanto deve avvenire per la morte, al di là di ogni contingenza culturale e storica
3 Il sacro è proprio quell’ambito dell’esperienza che appartiene al mistero e nel quale le risposte possibili sono unicamente «morali»
4 La morale si fonda su un Dio che pur essendo altro rispetto all’uomo, non blinda il dubbio e il mistero, ma al contrario li svela
RAGIONE E MISTERO. Dal punto di vista storico, la distinzione tra principi morali e principi politici è certamente giustificata. Lungo il tragitto che abbiamo sin qui percorso è emersa, e con considerevole rilevanza, come la dimensione morale si leghi – per noi italiani – alla Chiesa e quella politica (amministrazione della polis) si riferisca allo Stato. Ma la distinzione si giustifica anche sul piano dei principi, e forse è essa stessa un principio.
Esiste l’atto della delega ma, non vi è dubbio, non tutto nella nostra vita è delegabile; non è possibile essere gestiti in toto, riducendoci alla stregua di un semplice oggetto maneggiato da qualcuno, sia pure prescelto da noi. Dobbiamo poter scegliere a chi affidare la nostra delega, ma anche di revocare tale scelta. Ci sono tuttavia dimensioni che non sono delegabili e che rimangono legate all’individuo, a ciascuno di noi.
Non è delegabile ciò che riguarda il senso della vita, mentre è possibile delegare su questa o quella modalità dell’esistenza, e financo le convenzioni che permettono di vivere in maniera serena e talora felice facendo parte di una collettività.
Forse è proprio questa la caratteristica essenziale dei princìpi che abbiamo chiamato «di base» o «princìpi primi»: di non essere cioè delegabili. Tra tali princìpi rientrano quello, già richiamato, del rispetto della vita umana e, ammesso che non sia dato di vederlo come l’altra faccia dello stesso principio, quello del rispetto della morte umana.
La vita umana deve essere rispettata sempre, e altrettanto deve avvenire per la morte umana, al di fuori di ogni contingenza e considerazione sul contesto storico. Si tratta di princìpi al di fuori della storia, anche se tale affermazione per taluni può essere discutibile, poiché l’uomo vive nel tempo e nello spazio, due dimensioni che mutano e lo mutano.
Ma nel flusso dei mutamenti sembra che questi due princìpi non si debbano modificare, siano per così dire immobili. Tali ci appaiono anche se possia mo constatare che di fatto sono mutati e sono diversamente considerati in culture differenti. Si tratta di funzioni elementari: la vita umana deve essere sempre salvaguardata e altrettanto la morte.
Con ciò non voglio negare l’esistenza di componenti culturali entrate talmente "nella carne" da sembrare naturali, mentre invece sono frutto di apprendimento. Si sa bene, per esempio, che il rispetto della morte è uno dei principi su cui si sono fondati la filosofia e l’epos dei greci, per i quali era importante, anzi essenziale, dare sepoltura ai morti. Chi non ricorda il confronto tra Ettore e Achille, che, vincitore e accecato dall’odio, non vuole rispettare quel principio e infierisce in modo oltraggioso sul corpo morto di Ettore, senza dargli la sepoltura che gli spetta? Un vero obbrobrio. E forse per questo, Achille è risultato antipatico agli studenti di tutte le epoche.
Si deve insistere sul rispetto della morte, perché nel nostro tempo sta venendo meno, e sovente non c’è posto per il defunto e nemmeno, paradossalmente, tempo per la morte, o per l’agonia che la può precedere.
Assistiamo a una negazione della morte; questa è ridotta sempre più spesso a malattia di cui individuare una causa patologica. Ma così la morte smarrisce il ruolo di evento misterioso e ineluttabile, traguardo che sancisce un limite invalicabile all’uomo e alla sua volontà di onnipotenza. Si è perduto il rispetto per questo evento, per il suo significato definitivo, e ormai si muore spesso senza dignità, lontano da luoghi all’altezza della sacralità del trapasso. La morte come patologia ha eliminato il campo della meditatio mortis, del limite della vita.
La morte deve essere sempre rispettata. La constatazione che il corpo morto è destinato a diventare polvere, a confondersi con la terra, non giustifica la negazione di tale principio. Il rispetto della vita umana esige il rispetto della morte dell’uomo: di un essere che pensa e che, pur pensando, rimane mistero.
La vita e la morte sono l’essenza dell’esserci, e tuttavia non saprei definire con precisione la vita e la morte, o per lo meno non riesco a depurare il mio sapere da quel mistero che rimanda a qualcosa che non so e che, allo stesso tempo, è e non è. Questi elementi, per quanto indagati intensamente dalla ricerca filosofica, non si esauriscono nel sapere, almeno quello di oggi, e fanno parte del mistero, di fronte al quale la scelta è solo tra credere e non credere, optando magari in favore di qualcosa che un altro credo non contiene anzi esclude.
Il senso del mistero conduce i due grandi temi della vita e della morte dal capire al sentire, e dalla ragione alla morale, dove per morale consideriamo la dimensione da cui provengono risposte agli stessi misteri.

IL SACRO. C’è una categoria della nostra mente che dà una dimensione a queste tematiche: lo si rileva da quanto si sa sul sacro e dall’idea del sacro quale dimensione dell’uomo, categoria della mente che si rivolge alla percezione di ciò che è misterioso, che al tempo stesso affascina e spaventa, attrae e infonde terrore.
La morte mi affascina, mi sento attratto ma anche spaventato da essa; e così la vita, il passaggio da ciò che non è a ciò che esiste e soprattutto l’«esserci» che potrebbe invece «non essere», il salto dall’essere al nulla.
Abbiamo una possibilità – che è dentro di noi, fa parte della nostra struttura mentale – di cogliere il mistero e questo sembrerebbe anche dirci che qualcosa sfuggirà sempre al sapere codificato, che permane qualcosa di ignoto, di indefinibile, di ineluttabile, di misterioso.
Si tratta di una categoria che si avvicina a quella del comprendere, che però giunge a conclusioni differenti. Non possiamo dunque percepire il numinoso, e cioè il misterioso, con le categorie del logos, attraverso la comprensione e la dimostrazione logica o sperimentale. Il mistero non è oggetto né delle categorie della ragione, come ad esempio il principio di non contraddizione, né della scienza sperimentale.
La vita è, almeno in parte, mistero; così la morte è, almeno in parte, mistero. Sono temi che hanno bisogno di risposte diverse: risposte al sacro. Ecco, percepiamo una dimensione sacra per la vita e per la morte, e il sacro è quel campo dell’esperienza umana che appartiene al mistero e nel quale le risposte possibili sono unicamente quelle della morale.
Si tratta di un concetto da chiarire subito, pur avendone parlato diffusamente in precedenza, e avendo visto il significato non sempre uniforme che la morale ha avuto nella storia.

MORALE. La morale, nel senso classico, svela il significato della vita e della morte, dà risposte valide sia per l’una, sia per l’altra, attribuendole a qualcosa che non può essere discusso poiché si impone per forza intrinseca. La morale qui si fonda su un Dio che è totalmente altro rispetto all’uomo, che non blinda il dubbio e il mistero, ma li svela, poiché è colui che ha dato la vita e che riscatta la morte, assegnando un senso all’una e all’altra.
Il senso del sacro chiede, percepisce, si commuove, persino gioisce per una nuova vita e trema, piange, si dispera per una morte, ma trova risposta in Dio che pur fuori dal mondo, ne è immanente. Un Dio che ha manifestato la propria presenza e continua a farlo, anche se con modalità che non sono di questo mondo, poiché egli non può essere visto, essendo totalmente diverso da ciò che si vede.
Si entra in un campo che si definisce nella verità, attraverso le parole stesse di Dio: egli dice che cosa è la vita, spiega perché è stata data e parla dell’esistenza oltre questa terra. Ci conduce quindi in un mondo altro (la vita dell’al-di-là) che sa di paradiso.
L’uomo che sente il mistero trova risposte in un credo. Perciò non solo deve avere libertà di credo, ma non può delegare ad alcuno i temi che sono alla base del senso stesso della vita e della morte.
Qui è necessario essere conseguenti al credo cui specificatamente ci si affida: il mistero infatti può trovare ris posta nel nulla, nel caos, nell’idea di un architetto che ha fatto il mondo e poi se ne è disinteressato, o piuttosto in un Dio che ha stabilito un’alleanza non solo con l’umanità in generale, intesa come specie, ma anche con il singolo. In ogni caso, quale che sia la risposta che va bene per noi, essa rientra nella morale.
Si impone tuttavia un’ulteriore distinzione tra il «credo», ossia la risposta che ciascuno formula verso il mistero, e dunque tra il senso della vita e della morte, e i comportamenti che derivano da questa risposta.
Se la vita è una prova e la morte un giudizio sulla vita, allora è comprensibile che si debbano dare dimostrazioni di fede, e quindi anche di uno stile di vita, che siano anzitutto risposta adeguata alla morale e non alle pretese della polis, che può anche non essere rivolta al cielo.
La vita e la morte dell’uomo, che per una certa parte appartengono al mistero, e dunque rientrano nel sacro, non sono materia a disposizione del riduzionismo razionale. Il fatto stesso che esista nella nostra mente la dimensione del sacro, pare dimostrare che è inutile, se non ingiustificato, cercare di riportare questo contenuto nel campo del puramente dimostrabile. Dunque, il vivere e il morire chiamano in causa la fede, e la risposta che ad essa si dà appartiene al campo religioso o anche alla sua negazione.

POLITICA. Vi è poi la dimensione dei princìpi politici, quelli che si legano a un evento storico preciso, e dunque al sistema che da tale evento è scaturito e che un gruppo di persone si è dato per poter costituire una comunità, un corpus sociale. E qui le possibilità sono diverse, ma non tutte praticabili.
Ci può essere, infatti, il caso di chi non accetta di stare con gli altri, non ammette alcun principio comunitario né alcuna regola che comporti rispetto per l’altro: sarà la base di un solipsismo individuale, di una anarchia.
Le regole dello Stato infatti devono essere sempre comuni, qualificandosi esse come scelte per tutti; certo, talora la delega non è pienamente consapevole o si verifica addirittura una situazione non democratica, nella quale il popolo è dominato da un tiranno che si arroga ogni delega, imponendosi con la forza.
In ogni caso, si passa qui dalla dimensione della fede che è sempre individuale a quella comunitaria, determinata dalle leggi dello Stato, le quali riguardano tutti. E qui una delle distinzioni maggiori è che, se nel funzionamento della polis il potere è delegabile, non lo è affatto il vincolo morale, men che meno è delegabile a chi gestisce la polis, giacché la morale riguarda la coscienza del singolo, le sue convinzioni, la fede che lo lega personalmente a Dio.
Ecco l’elemento sostanziale anche nel caso di una religione assai diffusa tra la popolazione: per credere non c’è da dare il proprio voto a qualcuno, ma deve esserci stata un’esperienza diretta del Dio a cui si crede e dal quale si ottiene la risposta al proprio senso del mistero e al dubbio che talora ci attanaglia. E che può risultare anche angosciante, poiché il mistero non ci scioglie dagli enigmi.
L’incontro personale e irripetibile di ciascuno con il Dio in cui crede, sottolinea e garantisce la dimensione individuale e soggettiva del credere, e questo tanto più vale quando a credere nello stesso Dio sono più persone.
Pur in una comunanza profonda qual è quella generata dalla stessa fede, il rapporto – per esempio – di un Agostino con il suo Signore è originale e diverso da quello che si stabilirà tra Tommaso d’Aquino e Dio.
Dal mio punto di vista, insisto nel dire che il credere è un fatto personalissimo, ossia individuale e dunque irripetibile, persino ineffabile, mentre le leggi della polis sono di tutti e per tutti, e il rapporto che intercorre tra un cittadino e il proprio sovrano, re o Parlamento che sia, è qualcosa di comune, che si ripete uguale per tutti.

POTERI SEPARATI. Nel nostro contesto, queste due dimensioni – quella religiosa e quella politica – hanno portato a nche a due poteri: alla polis, e cioè lo Stato, e alla Chiesa, che ha una sua espressione storica, pur occupandosi essa della città del Cielo. A livello personale i riferimenti non possono che essere distinti, benché taluno potrebbe autolimitarsi alla sfera della coscienza, là dove maturano le risposte personali al mistero. Quando tuttavia queste risposte acquistano uno spessore storico, e s’imbattono con l’esperienza della Chiesa, a quel punto diventa più che opportuna una netta distinzione tra le due sfere; i compiti dell’una non possono essere delegabili all’altra.
E deve valere il principio dei due poteri che si rispettano reciprocamente: la polis garantisce piena libertà a tutte le coscienze mentre la Chiesa adempie alla sua missione spirituale, per la quale i credenti sono chiamati a compiere per intero il loro dovere anche civile.
Ma è indispensabile che non ci siano interferenze. Un cittadino non può delegare al re o al capo del governo decisioni correlate alla vita e alla morte. Come nessun potere potrà mai decidere – chessò – per la guerra sulla base di una delega elettorale, che in realtà non può che essere circoscritta alla gestione della cosa pubblica, la quale non prevede incursioni in materie morali, che lambiscono il mistero, e danno un senso alla vita e alla morte.
Si apre qui il problema del limite, e del suo rispetto. La separazione dei campi e dei poteri attiene ad un principio che precede le modalità della sua stessa regolamentazione, si pone a monte cioè di un qualsiasi concordato tra i due poteri, dello spirituale e del politico.
Sulla base di questo principio ovvio che risalti l’errore e l’inaccettabilità delle posizioni integraliste che tendono invece a fondere questi due poteri e a confonderli, facendo valere gli imperativi della fede non solo nel campo spirituale ma anche in quello temporale.
Storicamente si sono presentati lungo i secoli dei fenomeni spirituali molto caratterizzati in termini di rinuncia al mondo, gruppi che son o vissuti in esclusiva attesa della morte, forme anche monacali di vita integralisticamente concepita come disprezzo e fuga.
Se dalla scienza nasce la conoscenza, come abbiamo visto nei nostri excursus, siamo però avvertiti che essa, la conoscenza, può sgorgare anche dal mistero. Certo, il mistero non è campo per la ricerca scientifica, ma stimolo per una valutazione più profonda della vita, quale è la morale. Si propone indipendentemente dal grado del sapere e da qualsiasi contributo: non è affatto un ignoramus sed non ignorabimus.
Il senso della vita e della morte trovano espressione nella sfera religiosa, del sacro, e incontrano risposta nella fede. Questa si pone come dimensione «unica» nel suo genere, dentro un’esperienza ineffabile, irripetibile, a contatto con quell’entità che chiamiamo Dio. Anche l’ateismo, quello non banale, è a suo modo un atto di fede. Come la ricerca che talora attraversa intere esistenze. Sulle risposte infatti che ciascuno cerca a proposito della vita e della morte non è possibile alcuna delega, neppure – come già chiarito – alla politica, per quanto potente. Il crogiuolo è invece la coscienza del singolo, che magari si imbatte con i sentieri della Chiesa. La quale ha la missione di essere dimora di Dio e dunque a suo modo di rappresentarlo.

ESEMPIO DI CONFLITTO. In una recente circostanza abbiamo visto i due poteri, quello politico e quello morale-religioso, andare in rotta di collisione. Nella guerra dell’Iraq, allorché si trattò di assecondare il disegno degli Stati Uniti, ecco risuonare potente e solitaria la voce di Giovanni Paolo II. Mai come in quel momento egli interpretò il sentire dei cittadini comuni nell’invocare la pace, nel ripetere il no alla guerra omicida. Ma in questo caso il conflitto si alimentò perché la politica si arrogò una delega che non può ricevere. Sulla guerra non si discute, non si tratta. Lo Stato non può decidere di dare la morte, con la guerra o come condanna di tribunale, non è terreno su o, questo. Ricordiamolo.



idee & figure

Achille ed Ettore
Achille è il personaggio centrale dell'Iliade. Crise, padre di Criseide e sacerdote di Apollo, dopo essersi recato da Agamennone e avere implorato la restituzione della figlia in cambio di un riscatto, viene insultato e cacciato. Agamennone attira su di sé le ire del dio Apollo il quale, per punirlo, provoca una pestilenza nelle file dell'esercito greco. Vista la sventura Calcante rivela ad Agamennone che la pestilenza avrà termine solo con la restituzione di Criseide. Agamennone accetta, ma esige in cambio Briseide, la prigioniera di Achille. Furente, Achille si ritira nella sua tenda, rifiutandosi da quel momento di combattere. In sua assenza, i troiani sembrano prevalere: nel corso di una battaglia giungono ad attaccare il campo greco minacciando di dare fuoco alle navi. A questo punto Patroclo, scudiero e amico carissimo di Achille, ottiene da lui il permesso di contrattaccare alla testa dei Mirmidoni, indossando le sue armi. Patroclo respinge l'assalto e tenta più volte di scalare le mura di Troia, ma viene affrontato e ucciso da Ettore. Achille dimentica allora la sua ira e decide di tornare a combattere, menando strage di troiani. Infine affronta Ettore in duello e lo uccide. Per vendicarsi dell'amico ucciso, trascina con il carro il cadavere del nemico facendone scempio. Quando però Priamo si reca nottetempo al campo greco implorandogli di restituirne il corpo, si commuove ed acconsente. L'Iliade termina con i funerali di Ettore.
Avvenire del 17 settembre 2006

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