05 dicembre 2006

Degli anni Settanta si ricorda solo la violenza: perché non ci fu altro

Viene demonizzato il decennio successivo, che invece liberò l’Italia dall’epoca degli agguati
di Pierluigi Battista

Agguati mortali, coltellate, rappresaglie, uccisioni, risse mortali, terrorismo, stragi. Non si è mai visto nell’Italia repubblicana un periodo più cruento e lugubre degli anni Settanta. Nella memorialistica non si ricorda di quel decennio che sangue e ferocia. Sul Corriere della Sera Dino Messina ha descritto una ricerca di Guido Panini su Mondo contemporaneo dove si rivela con quanta cura demenziale «neri» e «rossi» degli anni Settanta si dedicassero reciprocamente dettagliate schedature per tracciare l’identikit delle future vittime dei pestaggi. Sull’onda del suo Cuori neri, Luca Telese ha messo a punto una collana editoriale della Sperling & Kupfer sull’imitazione di guerra civile che ha insanguinato quel decennio e sono appena usciti una riedizione rielaborata de I ragazzi che volevano fare la rivoluzione di Aldo Cazzullo e, sull’altro versante, La fiamma e la celtica di Nicola Rao. Sempre e solo violenza politica, botte, pistolettate, sprangate. Degli anni Settanta non ci si ricorda altro, per la semplice ragione che non ci si può ricordare altro. Un decennio totalitariamente invaso dalla violenza. Un decennio orribile, di straordinaria cupezza, di irredimibile tristezza privata e pubblica. Un decennio di giovani vite spezzate nel terrore politico e nell’eroina. E quando quell’ombra tetra si stende sul nostro presente, è come se aleggiasse sempre lo stesso spettro di intolleranza, la dialettica politica brutalmente risolta nella pratica delle bastonature e dei roghi. A Padova ricompaiono spranghe e taniche di benzina tra fascisti di Forza Nuova e una storica emittente radiofonica degli anni Settanta come «Radio Sherwood». Due parlamentari, Massimiliano Smeriglio e la vicepresidente della Camera Giorgia Meloni di An, si scambiano lettere (civilissime, per la verità) che hanno per oggetto l’uccisione di Francesco Cecchin nel ‘79. «Anni di piombo» è espressione logorata dall’uso e dall’abuso, ma non c’è descrizione migliore di un decennio che ha prodotto solo una patina di grigiore disperante. Un decennio di cui storiograficamente si contano solo i morti, i feriti, i sequestrati. Un deserto dell’immaginazione e della creatività. Non è rimasta traccia, rivisitando quel decennio maledetto, di un solo romanzo rappresentativo di un’atmosfera che non fosse intossicata dal fanatismo politico. Quando Goffredo Parise scrisse all’inizio degli anni Settanta il primo dei suoi Sillabari venne svillaneggiato perché aveva osato occuparsi dei sentimenti anziché continuare a denunciare la guerra del Vietnam. La storia di Elsa Morante creò sconcerto e stupore perché affermava che la sofferenza umana non è risolvibile con i teoremi dell’ingegneria politica. Sul cinema di quel decennio, meglio stendere un velo pietoso. Non un prodotto che onorasse la tradizione italiana del design che sino a pochi anni prima aveva esibito un’immagine splendida di sé. Un modo imbarazzante di vestire e un vuoto assoluto di senso estetico, come ci raccontano le fotografie di quell’epoca. Nel teatro, nella poesia, nelle arti figurative, il nulla o poco più, quando gli imperativi marziali della militanza politica dominavano incontrastati in ogni angolo dell’immaginazione pubblica. Oggi i libri parlano solo di quello. Ma di cosa dovrebbero occuparsi, in alternativa? Ancora ci si ostina a demonizzare gli anni Ottanta, un decennio che liberò l’Italia da una camicia di forza e da una prigione delle idee da cui evadere, mentre le parole venivano sostituite da spranghe e pistole, sembrava impossibile. Ma intanto non ci resta che la memoria di una violenza pazzesca, nel decennio più tragico e brutto dell’Italia democratica.
«Corriere della sera» del 20 novembre 2006

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