03 novembre 2006

Se Romolo batte anche Di Caprio

L’antichità piace ai giovani
di Andrea Carandini
Mattina fulgente a Roma domenica scorsa. Non verrà nessuno, mi sono detto, ripassando la lezione. Prove di luci e audio nell’aula Sinopoli dell’Auditorium; un po’di panico. Il comune e l’editore Laterza mi avevano chiesto di raccontare la prima di nove date fatidiche di Roma: quella della fondazione della città. Dovevo dire che gli storici attuali avevano sbagliato a non credere a Cicerone, Livio, Dionigi e Plutarco e che venti anni di scavi davano ragione agli antichi... Un re, probabilmente di nome Romolo, quelle imprese le aveva fatte e proprio nell’VIII secolo a.C. Ore 10 e 30, le porte si spalancano e un’orda riempie 1300 posti, in un baleno. Nell’androne e fuori, una calca; la caposala mormora: più gente che con Leonardo Di Caprio. Mi sono detto: facilitare il tutto? No, sono stufo del vino annacquato dato alla gente e spacciato per Barolo, dei diplomi chiamati lauree... Voglio narrare trascinando loro nei secoli, nei metodi, e son partito dal 21 aprile, la data di Roma condita, fondata. Ho parlato del Palatino benedetto, del Foro, Campidoglio e Arce, centro sacrale e politico della città, della divisione del tempo, dello spazio e degli uomini e infine del re, del consiglio e dell’assemblea: è la prima Costituzione di Roma. Non è forse questa la magna charta di ogni successiva monarchia costituzionale (lo pensò già Mommsen), la «sindrome occidentale» in cui è la nostra identità precristiana? Il silenzio era assoluto; non sapevamo che fuori erano in tremila a rumoreggiare, e quando hanno proposto un concerto in alternativa, fischi... Mai le scienze storico-archeologiche avevano raccolto tanta folla. Così, terminata la discussione, conclusa da una bambina che voleva sapere della morte di Remo, ho pensato: bisogno di identità, di dipanare gli arcani della città? Se uno vuol conoscere Roma non ha un luogo che sappia raccontarla, come il Museo di Amsterdam, che parte da due capanne e finisce al piano regolatore. Nessuna città italiana ha un museo che la spieghi, per grandi periodi storici, nei suoi paesaggi, nelle architetture e negli oggetti ricondotti alle costruzioni. All’Auditorium era la sconosciuta élite dell’immane ceto medio, enorme anch’essa, che si era svegliata, stufa di fragori musicali e discoteche; veniva dal vecchio professore volendo sapere quel che né la Tv, né i musei, né le mostre sanno dire. Di fronte a questa domanda sconcertante bisogna attrezzarsi per offrire ricostruzioni, narrazioni. Invece il Foro e il Palatino sono privi di didascalie e nessuno sa che cosa veramente sono, mentre i greci venerano l’Acropoli. Le corporazioni amministrative e accademiche, serrate in sé, sono autoreferenziali, ma la Costituzione prescrive che dovrebbe essere la Repubblica a salvare e ridare valore al nostro patrimonio storico. Urge dunque, più che una «restaurazione», una «riforma», che punti a un «sistema» per i beni culturali, che coinvolga Stato, regioni, università e privati, assicurando finalmente l’interesse generale. Idee del genere sono nel programma del governo, ma stentano a tradursi in azione. Su Roma abbiamo ancora in mente il racconto del fascismo, perché il nostro deve ancora nascere... La soluzione che propongo è dunque che tutte le competenze cooperino nel ricomporre e nel raccontare il passato; solo così potremo anche salvarlo. Se non è di utilità per la vita, il passato perderemo. Le soprintendenze devono risorgere, ma come centri di un sistema che sappia includere anziché escludere, mentre esse sono ora al centro solo di sé medesime. E anche l’università, sempre dimenticata, una mano potrebbe darla.
«Corriere della sera» del 1 novembre 2006

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