14 novembre 2006

A che ci servono gli intellettuali?

Da «sacerdoti» della verità a comparse sui mass media: oggi l'Italia mette in dubbio il ruolo dei «chierici». Un convegno in Umbria
di Edoardo Castagna
D’Orsi: «Attenzione ai consiglieri del principe: la critica esige distacco» Monticone: «In troppi mettono la cultura al servizio della propria parte ideologica»
Da maestri della pubblica opinione, figure quasi sacerdotali del pensiero critico, a comparse del circo mediatico, immersi in una melassa di volti e parole nella quale, oltretutto, sembrano perfettamente a loro agio. Gli intellettuali oggi sono in crisi, almeno rispetto al ruolo che, dalla nascita della società moderna, hanno sempre rivestito. Tanto che sono diventati una specie di caso clinico da analizzare, come farà a partire da domani il convegno «Intellettuali. Preistoria, storia e destino di una categoria» organizzato fino a sabato dalla Fondazione Luigi Salvatorelli a Marsciano (Perugia). Perfino questo riconoscersi in una categoria marca una difficoltà: «È un termine che mi lascia un po' perplesso - rileva lo storico Alberto Monticone, che al convegno interverrà sabato - perché indica una sorta di appartenenza specialistica. Invece, la vita intellettuale è una missione, una chiamata, uno strumento di crescita umana verso la comprensione e il dialogo. Verso ciò che noi cristiani chiamiamo sviluppo integrale dell'uomo». A tarpare le ali di questo servizio alla comunità attraverso la consapevolezza e la coscienza è intervenuta anche una lunga attitudine dell'élite culturale italiana: quella di essere intellettuali organici - a un'ideologia, a un partito, a una parte sociale. «Certo, anche gli intellettuali possono prendere posizioni di parte. Però abbiamo visto molti usare gli strumenti della cultura per servire la propria parte e la propria ideologia, fino alla propaganda. Anche se, nel Novecento, proprio tra gli intellettuali organici sono nate le critiche dall'interno alle ideologie di cui prendevano parte». La figura dell'intellettuale è figlia di un lungo processo evolutivo, testimoniata dall'uso ancora corrente, per definirli, del termine «chierici». «Un termine - ricorda l'ideatore del convegno umbro, lo storico Angelo d'Orsi - ereditato dal Medioevo, quando l'uomo di Chiesa era il depositario della cultura, e cristallizzato nel 1927 da Julien Benda nel suo Il tradimento dei chierici». Il «tradimento» della cultura europea era stato lo schierarsi a favore della Grande guerra; una scelta che si spiega ripercorrendo l'evoluzione del «chierico»: «Nel trapasso tra Medioevo ed Età moderna nacque l'intellettuale consigliere del principe, colui che dà precetti di ars politica. È un paradosso: se questa è un'ambizione eterna degli intellettuali, nello stesso tempo l'uomo di pensiero, quando la realizza, tradisce la sua funzione. L'intellettuale deve essere una figura critica, non può legarsi al potere». E si torna al problema dell'intellettuale organico. «Il secondo dopoguerra - prosegue D'Orsi -è stato un grande momento di esaltazione dell'impegno vicino o dentro ai partiti, soprattutto al Partito comunista. È il periodo delle associazioni politiche, dei manifesti, degli appelli, delle manifestazioni collettive degli intellettuali. Un grande impegno che finì per essere anche impegno di schieramento». Ancora una volta, il «tradimento dei chierici»? D'Orsi fa qualche distinguo: «L'intellettuale deve avere allo stesso tempo un occhio freddo e un occhio caldo: freddo nell'analisi, caldo nella passione, anche politica. Ma l'uomo di cultura deve dichiararle, le sue passioni, e avere l'onestà intellettuale di contraddire se stesso quando documenti, testi o dati mettono in crisi il proprio schieramento. La doppia veste dell'osservatore partecipe, insomma». Quello del secondo dopoguerra non fu soltanto l'epoca degli intellettuali organici al Pci, ma anche quella di un risveglio della cultura cattolica. L'intellettuale cattolico, riflette Monticone, si trova in una condizione peculiare perché «per i cattolici il lavoro intellettuale è parte integrante della vita comunitaria. Dopo la Seconda guerra mondiale, c'è stata una grande attività nell'associazionismo cattolico delle professioni: medici, giuristi, insegnanti, docenti universitari… Professioni evidentemente legate all'attività culturale. Questa vitalità diede un'impronta di forte impegno sul fronte sociale e della testimonianza della qualità della vita, poi rafforzata dal Concilio Vaticano II. La Gaudium et spes, per esempio, indica una funzione specifica dei laici nella vita della Chiesa, in particolare di quelli che si richiamano alla cultura. Tutti i laici cristiani sono sollecitati a farsi testimoni del Vangelo nelle realtà temporali, con una particolare attenzione a quelli che, attraverso la cultura, allo sviluppo della ragione e alla mediazione culturale possono arricchire l'attività evangelizzatrice della Chiesa». Ma poi, sia nel campo cattolico che in quello laico, dopo la fiammata degli anni Cinquanta e Sessanta è stato il tempo del riflusso «finché - continua D'Orsi - tra la fine degli anni Settanta e l'inizio degli anni Ottanta è emersa una crisi dell'impegno e dello stesso lavoro intellettuale, che è diventato una professione e ha perso la sua sostanza etica e la sua funzione critica. È prevalsa l'attenzione alle logiche del mercato e del potere: pensiamo ai tanti sessantottini subito entrati nelle istituzioni, subito sistemati in maniera rapida e indolore con una capacità di mimetismo straordinaria. Anche per questo oggi gli intellettuali non godono più di molto credito, e la loro stessa funzione viene revocata in dubbio. Da "sacerdoti" della verità, gli intellettuali si sono accodati a un punto di vista di parte». In qualche modo «tradendo» ancora, conclude D'Orsi: «Oggi abbiamo visto troppi intellettuali a favore della guerra. Ma la guerra è la negazione stessa del logos, della parola. Si dice anche: "La parola passa alle armi"».
«Avvenire» del 14 novembre 2006

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