15 settembre 2006

Raboni: l’ultimo dei classici

di Franco Cordelli
Dopo il garzantiano Elefante intitolato Tutte le poesie, ecco il Meridiano di Mondadori, intitolato L’opera poetica, a cura di Rodolfo Zucco, con uno scritto di Andrea Zanzotto: l’uno e l’altro volume pongono un primo sigillo alla percezione che di Giovanni Raboni si aveva da molti anni, che fosse un classico. Forse sto dicendo una cosa ovvia, ovvia in ogni caso se si hanno in mente simili opere o collane, Elefanti e Meridiani: chi vi finisce dentro se non i classici? E perché qualche volta ci siamo sorpresi che a uno scrittore in attività fosse stata concessa una simile gloria? Vuol dire che il segnale trasmesso da Elefanti e Meridiani è proprio quello che dico, confermato dal senso di stupore di fronte a (pochi) titoli. Per Raboni, questo stupore non si dà. Lo ripeto: era da anni che così si percepiva la sua presenza, come quella di un classico. La faccenda diventa più interessante se, invece che alle collane e alla loro ricezione, si pensa all’anno di nascita di Raboni, il 1932. È ormai chiaro, credo, che la spina dorsale della letteratura italiana è costituita dai nati negli anni Venti, da Calvino e Primo Levi, da Pasolini e Sciascia, da Volponi e Ottieni, da Zanzotto e Pagliarani. Questo dato di fatto ha complicato le cose, e non poco, per i nati nel decennio successivo. Per i nati dopo il 1930 l’angoscia dell’influenza di cui parlò Harold Bloom deve essere stata particolarmente attiva, e poco benefica. Non su un solo nome saremmo pronti a scommettere un Meridiano, o qualunque altra cosa. Per non dire che, in chi viene dopo, si comincia a perdere la nozione stessa di classicità. È fin dall’inizio, è già nella predisposizione (di apprendimento e di sviluppo) che ci si nega a ciò che chiamiamo classico. Opposto il caso di Raboni, come documenta la stessa cronologia stilata, con una ricca base documentaria, da Rodolfo Zucco. Raboni è entrato in letteratura come ai vecchi tempi, come si entra in un sacerdozio, prendendo i voti. Un solo, minimo esempio di questo fatto è nel titolo di un libro che non c’è nel Meridiano - Meridiano da Zucco preparato con l’aiuto dello stesso Raboni. Il libro è I bei tempi dei brutti libri. Il discrimine tra un’idea attiva di classicità e un sentimento che tende a metterla in ombra, è proprio questo, che non vi sia più possibilità alcuna di pensare a libri belli e libri brutti, cioè non vi sia la possibilità di distinguere. Raboni non era tipo da nostalgie, futuro e passato si consumavano per lui nel presente della poesia. Ma quel titolo, o meglio quel libro, escluso a causa del suo carattere di non organicità, vale non già come eccezione, ma come sintomo o, al limite, come presa di posizione etica - per altro una costante nell’opera di Raboni. In questo senso, ha ragione Zucco. Piuttosto che il generico titolo Opere, la specificazione, l’uso del termine «poetica», indica l’inoltrarsi in un dato di fatto: una qualità, una tonalità, che dalla poesia vera e propria, dall’opera in versi, si estende all’opera in prosa, di cui nel Meridiano testimoniano tre raccolte di diverso genere, Poesia degli anni sessanta, La fossa di Cherubino e Devozioni perverse. L’accento di Raboni, perfino del Raboni più seccamente critico (come nel primo di questi tre libri) e del Raboni moralista (come nel terzo) sfuma sempre nell’indecidibilità della poesia: le sue convinzioni sono pronte a subire i mutamenti che il tempo rende necessari od opportuni, senza contare, di Raboni, la natura profonda che abbiamo visto con crescente chiarezza manifestarsi negli ultimi libri: una natura liquida, sgusciante, fatta come un anello di Moebius, perfino nel gesto ruggente dell’invettiva. Zanzotto, da par suo, nello scritto a Raboni dedicato dice un mucchio di belle cose. Parla di Raboni come poeta civile, nel senso dell’«impossibilità di agire nella solitudine». Parla del suo impegno ma anche del suo disimpegno (il calcio come «musichetta di fondo»); dell’«asciuttezza tagliente e risentita» di una poesia che inclina alla prosa (come nei suoi maestri Vittorio Sereni e, con più ritrosia, Montale); della riconquista del sonetto come ipernovità, ovvero come «simbolo strutturale mandalico»; delle sue delusioni politiche, in stile Ortis, sempre risarcite dalla luce, dalla gioia, da quella poetica «navetta che genera la trama fonico-ritmica». Parla anche di un aspetto assai caratteristico: della sua «grandiosa impresa di operatore culturale». Questo aspetto della presenza di Raboni, che fu discusso e gli generò qualche risentimento (il Re censore), mi sembra peculiare. Non penso al suo carattere lombardo, alla sua alacrità di uomo con le maniche sempre rimboccate; e non penso neppure a quanto di cruciale, in senso psichico e spirituale, vi è in questo tratto, secondo il riconoscimento fattone da Zucco (su altro piano, di poetica): l’idea della pietas, ereditata da Manzoni, e l’idea della salvezza, non personale, ereditata da Clemente Rebora. Penso in termini per così dire sociologici. Che cosa è stato il poeta del Novecento? Che tipo di personaggio era? Che cosa egli faceva, oltre a comporre poesie? È stato tre tipi umani o, appunto, sociali: il poeta-poeta, mai toccato dai commerci mondani (Penna, Zeichen); il poeta-professore, colui che scioglie la sapienza in musica (Ungaretti, Luzi); il poeta-militante, colui che scende in campo per combattere la battaglia politica e sociale (Montale e Pasolini, che non si amavano poiché ignoravano quanto fossero simili; Sereni, il maestro, e Raboni, l’allievo). A proposito di Sereni e Raboni occorre aggiungere che in questo particolare settore della militanza, sono gli ultimi due poeti che si sono spesi in un campo delicato come quello editoriale, dove si è direttamente responsabili non più di se stessi, ma degli altri, anzi delle generazioni a venire. Rodolfo Zucco ricorda una lettera di dimissioni di Raboni del 1985: «La scarsissima presenza, negli attuali programmi della Mondadori, di un lavoro di ricerca e valorizzazione di nuovi autori, sia nel campo della poesia che in quello della narrativa, mi rendono praticamente impossibile fare l’unica cosa che so davvero fare: proporre, e aiutare a scegliere, libri non ovvii, libri nuovi, libri letterariamente credibili».
«Corriere della sera» del 10 settembre 2006

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