23 agosto 2006

Come cambia l'esame di maturità

Carissimi, forse avrete già letto o forse no, ma ci tenevo a comunicarvi le novità legate all'esame di maturità, anche se ...
Vi ricopio le più importanti, che ho trovato nel sito dell'Istruzione, dove puoi leggere l'intero
disegno di legge:

1. NON TUTTI SONO AMMESSI! Sono ammessi all'esame soltanto gli alunni che abbiano frequentato l’ultimo anno di corso, siano stati valutati positivamente in sede di scrutinio finale, e che abbiano comunque saldato i debiti formativi contratti nei precedenti anni scolastici;

2. VALE LA PENA STUDIARE NEGLI ANNI PRECEDENTI! Infatti il credito scolastico sale a 25 punti rispetto ai 20.

3. L'ESAME ORALE VALE DI MENO! Infatti il colloquio avrà un peso di 30 punti e non più di 35;

4. NON SOLO I PROFESSORI DI SEMPRE! La commissione di esame di Stato è composta da sei commissari, dei quali il cinquanta per cento interni e il restante cinquanta per cento esterni all’istituto, più il presidente, esterno. Le materie di esame affidate ai commissari esterni sono scelte annualmente dal Ministero. La commissione è nominata dal dirigente preposto all’Ufficio scolastico regionale. Ogni due classi sono nominati un presidente unico e commissari esterni comuni alle classi stesse, in numero pari a quello dei commissari interni di ciascuna classe, e, comunque, non superiore a tre. In ogni caso, è assicurata la presenza dei commissari delle materie oggetto di prima e seconda prova scritta.

Che ne pensate?
23 agosto 2006

La molle gioventù

di Massimo Gramellini
Se siamo in mano ai vecchi, qualche piccolissima responsabilità non andrà attribuita anche ai giovani? L'ultima statistica è raggelante: su mille ragazzi italiani che cominciano le scuole superiori, soltanto diciotto arrivano alla laurea in orario. Persino aggiungendovi i ritardatari lievi, cioè coloro che finiscono entro l'anno e non nei secoli dei secoli, resta una percentuale che una volta si sarebbe definita da Terzo Mondo, non fosse che adesso i ventenni di quei Paesi hanno una marcia in più, e chi può farlo studia come un forsennato, si sacrifica, si arrabatta e alla fine sfonda.
I giovani occidentali hanno meno appetito? Può darsi, ma i nostri ancora meno degli altri: fra gli studenti liceali che decidono di cimentarsi in un lavoretto durante l'estate, quelli italiani si collocano trionfalmente all'ultimo posto. Molti insorgeranno, sbandierando diplomi e lauree inutilizzabili, impieghi sottopagati e precari. Hanno ragione. Ma allora perché i loro fratelli minori continuano a iscriversi alle facoltà umanistiche che danno lavoro a minoranze di raccomandati, invece di buttarsi su quelle scientifiche, richiestissime dal mercato? Matematica, chimica, fisica, biologia: interi mondi, affascinanti e ben remunerati, sono stati consegnati a indiani e cinesi. A nulla vale che le università tentino di attirare i ragazzi con offerte da supermercato, abbuonando le tasse del primo anno: paghi due, studi tre. Molto più comodo spaccarsi la testa su lettere o sociologia, per poi andare a ingolfare i «call center» a trecento euro al mese.
«La Stampa» del 23 agosto 2006

01 agosto 2006

Dove vanno i poeti ...

Otto poeti italiani raccontano le ragioni che fondano la loro vocazione a scrivere versi. Sono otto storie diverse che convergono in un punto: la materialità della parola, che distingue la visione lirica da quella filosofica. Alle sorgenti del mistero che trasforma le parole in «cose» viventi

Cucchi: «Noi dissipatori ma il pubblico dov’è?»


Non so se il poeta in genere è un «dissipatore» anche se è quello che scrivo in un testo, ma questo è certamente un autoritratto: «Ho dissipato arte, talento, fantasia, / indifferente all’azione, all’opera, al governo, / ho preferito la quiete orizzontale, l’attesa, / il dolce insorgere impagabile / dell’immagine nella rêverie / che va a spirale verso il fondo / o quel sopore galleggiante / sul mare increspato solo un soffio». Ricordo che una volta Majorino ha detto: il poeta deve essere magnanimo. Vorrei essere magnanimo ma non credo di esserlo, tuttavia trovo detestabili tutti i poeti che si danno arie da sublimi. Credo sia necessario che ogni volta, prima di scrivere, ognuno si chieda: è il caso? È necessario e se ne può fare a meno? Bisognerebbe trovare, credo, una saggezza, un equilibrio tra i doveri verso se stessi e quelli verso gli altri. Nobiltà d’animo comunque per me corrisponde alla noncuranza, alla trascuratezza rispetto a ciò che non si è riusciti a realizzare. Tanto più che questa parola è veramente orribile, anche se è entrata sempre di più nella nostra conversazione: una persona realizzata è morta... Io ho stima di tutti coloro che vivono senza lasciare traccia, non appartengo a queste persone, ma un pochino sì... Quando è una bella giornata e mi siedo, guardo il mondo, vivo... e sono contento di quel momento, della vita, del fatto che è come se il tempo per un attimo avesse smesso di essere quella freccia che ci porta via... Non so se questo vuol dire dissipare, forse dissipa molto di più chi tenta di realizzarsi come «Io», e, per farlo, dimentica la stupenda possibilità di vivere semplicemente immerso nel molteplice dell’universo...
Do un valore molto alto alla committenza, perché è l’unica dimostrazione in cui il sociale riconosce il poeta e, quindi, i poeti che rifiutano la committenza non hanno capito che il testo è un messaggio autonomo... ma fino a un certo punto, perché il testo ri sponde sempre anche a delle modalità di riconoscimento sociale e, se questa modalità non esiste, allora il poeta che scrive senza aver ascolto è... un pazzo. Un tempo il poeta si rivolgeva sempre a un pubblico che poteva riconoscerlo. Oggi il poeta si trova in una situazione molto più complessa: non ha un pubblico con cui dialogare, perché la gente ormai non riconosce più il linguaggio specifico della poesia, ma preferisce le canzonette...


Valduga: «Come Belli torniamo al dialetto»

Penso che la poesia abbia a che fare con la musica: hanno in comune la matematica, la stessa metrica è matematica, tutto quello che è rigorosamente calcolato ha a che fare con la matematica. Derrida diceva che la scrittura è iscrizione, qualcosa che mi sopravvive, e che quindi significa la mia assenza, la mia morte e in questo senso se tu ti esponi alla morte e se ci pensi, poi, costruire dei versi «matematicamente» calcolati e perfetti, può significare vincere la morte, in qualche caso. Ma è chiaro che c’è una sospensione della vita: non si può scrivere quando si sta male o si è troppo felici. Si scrive in quei momenti in cui lo si è stati, male o molto bene. È un ricordo, non può essere l’emozione allo stato puro. Ci vuole anche la ragione. Non ho l’idea che la poesia sia fatta solo da grandi figure, e non mi piace neanche, questa idea. Per me la poesia è un fiume nel quale entrano moltissimi immissari. È come se, per esempio, la grandezza del Tasso fosse fatta anche dai tanti «cosiddetti» minori che l’hanno alimentato. È il popolo che fa la poesia, non sono figure isolate. Pascoli, Manzoni e Rebora sono i poeti a cui ritorno più spesso. Adesso c’è anche Belli. Sono stata un anno a leggere Belli e posso dire che è il mio autore preferito, in assoluto. Per me è il più grande poeta italiano. Oggi mi pare che la lingua italiana sia in uno stato talmente pietoso che se anche i poeti si mettono a parlare in dialetto... fra un po’... forse non sapremo nemmeno più parlare. È chia ro che ci sono condizioni storiche, ragioni anche politiche nella scelta del dialetto. Io credo che per Belli questo non sia assolutamente un limite... non me ne frega niente se uno ha scritto in dialetto o no. La poesia vera non si fa intimidire dal dialetto. Credi che io riesca a leggere in milanese? Faccio una fatica tremenda... eppure anche Carlo Porta è sempre lì con me. Quando sono così grandi non c’è niente da fare: uno si appassiona. Però i lettori di poesia sono pochi... e se uno pensa «scrivendo in dialetto non mi capiranno mai, non sarò mai tradotto...» quello non è un poeta.


Oldani: «Troppa sociologia e rime ridotte a gioco»

Molta poesia si è espressa come gioco, dichiaratamente... Il gioco ha le sue regole, ma quando è finito, è finito. Il rito ha delle sue regole, ma è come se pescasse sul profondo, cioè ha delle regole di profondità. Il gioco ha delle regole di superficie, ti fa stare meglio dove sei, ma non è mai uno spostamento; il rito invece è come se ti facesse avanzare. La poesia italiana degli ultimi decenni ha avuto molto gioco. Il gioco è parente della superficie, non a caso molta poesia ha invocato la forma pura, ma la forma pura è superficie pura, addirittura è contrastante i sensi interni, il significare inteso come mobilitazione dei sentimenti, dei pensieri, stormi di sentimenti e di pensieri, che poi diventano stormi infiniti o uno stormo fatto dall’unità, ma una capacità di mobilitazione dell’innumerevole, sia nel sentire, nella sensazione e nell’emozione, che nel significare. Mi pare che queste mobilitazioni esistano nel rito e mi sembra che siano invece contraddette dal gioco; sono un po’ l’estate e l’inverno, l’estate spoglia fuori il corpo, l’inverno lo copre di infiniti accorgimenti, il rito è invernale: sono per il rito.
Oggi sento molto l’ossessione della qualità della poesia, penso che la poesia reclami un’ossessione così ampia dalla quale forse non può essere escluso niente, può essere così vorace da divorare tutto, ma come gesto d’amore, e questo mi sembra forse che incida sulla qualità della vita. Negli anni passati ho conosciuto molti poeti che praticavano professioni che richiedevano molto tempo; io sono lietissimo di fare il minimo per campare, di essere sociologicamente assente, mi sono accorto che erano altri i frutti che mi importavano, quelli di una pianta quando c’è n’è una sola nel frutteto.


Viviani: «Addio agli slogan in nome della parola»

Lo sento che c’è una parola sicura di sé, che afferma e nega, e che elimina ogni incertezza ed è luogo della potenza, del potere, della rassicurazione, del dominio. Questa parola, se è espressione individuale, diventa sogno insopportabile di autocompiacimento e di vanto, di prosopopea e di millanteria. Quando poi questa parola piena diventa espressione della comunità, diventa inevitabilmente slogan invadente. C’è poi la parola creatrice, la parola della poesia: che non è la parola geniale o ricercata, che sarebbe ancora parola piena e sicura di sé, sicuro poetese, ma invece è la parola che esce dall’illusione della propria pienezza e accetta l’incompletezza, il vuoto. Ora io credo che anche la parola comune, anche nelle sue espressioni più ripetute e usate, possa essere parola creatrice: quando non la si valuta con la prosopopea dell’intellettuale, ma la si vede come gesto, sussurro, precario passaggio di vita e di calore, battito del cuore della comunità, magari insignificante per l’intellettuale ma invece necessario e significantissimo per il mantenimento della vita dei comuni mortali e della comunità. Questa parola non è più slogan che vuole conquistare, ma è suono vitale che accompagna e conforta il difficile attraversamento che è per ognuno la vita.
C’è una voce che è immersa nei luoghi comuni, che li valorizza come luoghi della trasmissione comune della vita, e che li rappresenta nella loro semplicità quotidiana come luoghi dove si realizza l’eroismo di tutti gli uomini che ogni giorno affrontano l’or rore del vuoto. E c’è un’altra voce che invita a meditare e che dice: guai a liquidare ciò che è ripetitivo, trito, ciò che intralcia i progetti individuali o ciò che pesa, perché così si liquida gran parte dell’esperienza umana. Guai a liquidare ciò che è indegno: indegno di solito è il giudizio e lo sguardo dell’osservatore. A questo proposito ricordo una bella citazione di Deleuze sull’«evento»: «non essere indegni di ciò che ci accade». Dunque non bruciare tutta la vita per lasciare qualcosa che resti, nella speranza dell’immortalità individuale, ma piuttosto pensare che tutte le costruzioni umane con il tempo finiranno e resterà soltanto il liso, il lucido, il consunto dei passaggi comuni, delle vie da tutti calpestate.


Magrelli: «Alle parole non serve uno spremiagrumi»

Sono arrivato alla poesia, senza un progetto, attraverso la filosofia. Avrei voluto insegnarla, avevo uno strano atteggiamento. Come certi apparecchi che sono solo riceventi, io con la filosofia funzionavo così: recepivo in maniera entusiasta, e però non ero in grado poi di verbalizzarla o attivarla, di metterla in moto. Un meccanismo che studiavo con un amore sterminato, ma del quale non potevo fare alcun uso. Finché sono passato alla letteratura francese, che è diventata la mia professione e che amo in maniera enorme. Questo mi ha portato alla parola con quella intenzione di richiesta, quella domanda di pensiero e di risposta tutta particolare.
Penso poi che ogni poeta è fatto di casualità, di incontri. Nel mio caso certe pagine di poesia avevano una intensità, una verticalità, un peso assoluto. Dirò di più: ho studiato tanti anni tedesco proprio per poter leggere i grandi autori, da una parte Heidegger, Wittgenstein dall’altra. Per entrambi, per ragioni opposte, il pensiero è linguaggio. Non si dà pensiero al di fuori della carne linguistica che lo riveste. E tutti e due hanno parlato di poesia, forse Wittgenstein l’ha addirittura praticata, più e meglio di Heidegger. Questa è stata la mia palestra per tanti e tanti anni di lettura.
Esprimo la mia diffidenza verso le poetiche forti, quando sento trattare la poesia da un punto di vista troppo marcatamente filosofico. Ci sono dei linguaggi ormai predisposti, dei «macinapoesia». Heidegger, per esempio, è diventato una macchina interpretativa, ormai funziona come uno spremiagrumi, qualsiasi cosa gli metti sopra viene fuori il succo della poesia. Invece io vorrei tornare alla battuta che Mallarmé rivolse a Degas: «Le poesie non si fanno con le idee, ma con le parole». Il metro, il ritmo, la disposizione tipografica, la punteggiatura; di questo parla il poeta, non solo dell’essere nel mondo. A me interessa sapere in cosa si declina «l’esser-ci»: in settenari o in novenari? A un tipo di lettura tematico-filosofica (verso cui sono prevenuto perché se ne è abusato), vorrei rispondere con la materialità della poesia, fatta di figure retoriche, di pause, di spazi interstrofici, magari anche del disegno di un calligramma. Non mi stancherò mai di dire quanto siano importanti Palazzeschi o Laforgue, accanto a Trakl.


Loi: «Le cose di sempre sotto un’altra luce»

Noi in qualche modo facciamo parte del corpo unico del mondo. Non ce ne rendiamo conto ma quando siamo mossi da amore non è più il nostro io abituale che ha un rapporto con le cose, ma è tutto in nostro essere profondo che è in rapporto con tutte le cose. Allora questo movimento che fa uscire la parola è al di là dell’individuo, e quindi la nominazione non è fatta da te ma è il corpo unito delle cose che si esprime. Quando in poesia parli di una cosa mosso da amore, la cosa non è più quella abituale, ma si presenta in una rivelazione nuova, ti offre un aspetto diverso dal solito. Entra in simbiosi con te ed è come se il tuo essere profondo entrasse in risonanza. Allora la forma che ne risulta è del tutto nuova. Per cui la poesia non presenta schematicamente l’ordine, la sistemazione e la sostanza razionale delle cose, ma le presenta sotto una forma nuova. In questo sta la grandezza della poesia. La luna di Leopardi non è la luna solita, ma è quella che esce dal rapporto che in quel momento storico preciso un poeta determinato ha avuto con la luna. Dunque quella è diversa da tutte le lune che in poesia si sono nominate e, ovviamente, anche dall’astro reale che è in cielo. La poesia ripropone nella nominazione il mistero delle cose e della vita, ricrea il rapporto con il mondo, ecco perché è importante. Se la poesia non facesse che ripetere il tipo di rapporto che l’uomo ha attraverso gli schemi mentali con il mondo non avrebbe alcuna importanza, sarebbe un inutile orpello. Invece le ripropone in un modo inedito. In più c’è il suono che è importante in sé. Se io dico «piombo», per esempio, produco una certa sonorità, molto più cupa che se dicessi «sera».
Non per niente Yeats diceva che il suono in poesia è molto più importante dei contenuti apparenti perché se ci fai caso quando ascolti una musica, per esempio un rock, il corpo comincia a muoversi in un certo modo, non sei tu che hai deciso di farlo, ma spontaneamente avviene. Allora quel tipo di suono percussivo ha un determinato tipo di effetto su di te. Muove i centri nervosi in un certo modo. Se ascolti Bach o Vivaldi non solo si muove il corpo, ma si muove anche il pensiero, conscio e inconscio, questa funzione del suono all’interno della poesia è di una importanza enorme perché non si tratta di una nominazione, di tipo razionalistico, non nomino la cosa per cui la cosa rimarrà nella memoria degli uomini attraverso la nominazione. Rimane invece qualcosa di più, rimane la percussione incessante di quel rapporto dell’uomo con le cose che continua a tramandare il movimento che regola nel mondo il rapporto uomo-realtà.


Mussapi: «Tutto coesiste in una vaga oscurità»

Il poeta è preda di incanti, non di lusinghe o di illusioni. Quando iniziai a scrivere mi prefiggevo lo scopo di scrivere in un modo di essere percepibile e arrivare a l lettore, di attuare un modo poetico non oscuro e chiuso in se stesso. Certo, la vita è oscura, noi siamo oscuri a noi stessi persino nella nostra vita biologica, nella malattia... quindi la poesia non può evitare l’oscurità e il mistero, non può essere a priori limpida e comprensibile, ma non si deve cullare nell’oscurità. Anzi, i poeti devono cercare di fare... luce. Inoltre volevo raggiungere il correlativo oggettivo, teorizzato e realizzato magnificamente la T.S. Eliot: rappresentare situazioni astratte, ideali e spirituali attraverso scene concrete, non una poesia astratta ma un’arte caravaggesca, dove l’invisibile si faccia visibile e quasi tangibile. A quel punto sentivo di avere la coscienza a posto, sentivo di aver trovato la chiave della mia lingua, ma non bastava... capivo che mi mancava ancora quello che chiamo «l’elisir arabico» ... Volevo quello che si legge ne Le Mille e una notte: volevo l’incantamento di una poesia che sapesse rapire il lettore.
Nella poesia non esiste il principio di non contraddizione o di esclusione, tutto coesiste affinché tutto consista, anche quello che a prima vista sembra contrastare. Penso ci fosse una differenza enorme tra il poeta che mette in mostra la propria bravura, la propria capacità di stile — per esempio D’Annunzio — e il poeta in cui l’artificio, l’arte di scrittura è divenuta talmente intrinseca, è stata a tal punto metabolizzata da sembrare naturale. Perché in realtà lo è: la naturalezza è una conquista, la scoperta di qualcosa che hai dentro e per manifestarsi esige umiltà e magia... Volevo diventare mago, non prestigiatore...
Il mio percorso è nella linea dantesca, che Mario Luzi, in un saggio famoso dei primi anni Sessanta, indicava come «avvenuta nel mondo». Il modello dantesco è per me «il Modello»: un’avventura che parte dal buio e tenta di risalire, in base alla convinzione che anche nella natura effimera, cadùca e oscura del reale ci sia il germe di qualcosa che non riguarda solo questa vita ma alt ro. Ho scelto di scrivere poesia perché ritengo che la poesia sia un’avventura che riguarda tutti, anche coloro che non sanno che la poesia esiste.


Pontiggia: «Versi scolpiti nell’origine del cosmo»

Che cosa chiediamo alla parola della poesia? Non certo di dar conto della società in cui viviamo o delle nostre private ossessioni esistenziali: è invece una parola che tende all’assoluto, chiede verità non effimere, inaugura legami di necessità fra il nome di una cosa e la cosa stessa.
Le parole della poesia affondano insomma in qualcosa di remoto, appunto, di originario (le parole del titolo [allude al suo libro Con parole remote del 1998, ndr], tengo a precisare, sono remote non perché archeologiche, disusate, ma perché si volgono a qualcosa di arcaico, di profondo). Sono parole cosmogoniche, anche quando parlano di eventi quotidiani, ordinari, qualsiasi.
In fondo ogni verso è un’interrogazione al mondo, che il poeta pone partendo da quelle semplici ma indistruttibili domande che vanno poi a costituire i grandi temi della poesia di ogni tempo: morte, eros, natura; la maestà sacrale dei cieli; la tensione, naturale in ogni uomo che non sia stato corrotto dai tempi e dalle ideologie, alla felicità e alla bellezza; il senso profondo dell’esistere, e dunque il concetto di destino. Le cose del mondo sono opache, inessenziali; e restano tali quand’anche vengano conosciute da un pensiero analitico, scientifico. La poesia, sotto questo aspetto, è sempre un’epifania, o una ierofania: è il mondo che ritorna, si dà come dono divino, ci parla di un tempo che è fuori del tempo. La poesia, insomma, è lo splendore delle Muse (uno splendore tragico, misterioso, a volte: basta pensare alle muse primigenie dei Dialoghi con Leucò) che risponde all’invocazione del poeta. Salvezza da che cosa, allora? Dall’aridità dei tempi, certo, sempre più inautentici e deprivati (come indica il poemetto conclusivo); ma anche dal nostro piccolo io, dalla nostra pretesa di porci al centr o del mondo, dall’incapacità di vedere che il mondo è ben più alto e grande di noi.
«Avvenire» del 30 luglio 2006

Noi, figli dei media

«Oggi l'identità si rimodella di continuo nel rapporto con le nuove tecnologie». Parla l'analista Thomas de Zengotita
di Loretta Bricchi Lee
«Il postmoderno è anche questo: l’individuo stesso è parte del flusso di informazioni perché interagisce con cellulari,blog, Internet... E il prossimo passo sarà il post-umano»
I media ci circondano, ci assediano, ci condizionano. E hanno cambiato in maniera decisiva il nostro modo di vita, specialmente delle ultime generazioni. L'antropologo e filosofo Thomas de Zengotita, della New York University, ha appena pubblicato il pamphlet Mediated ("Mediatizzati"), che indaga come i media danno forma al proprio mondo e al modo in cui vi si vive, sostenendo che ogni persona non solo è il risultato del bombardamento di stampa, televisione e di ogni altra forma di comunicazione, ma è impegnata ogni giorno a interpretare la parte che assume proprio a causa dei media.
Professor De Zengotita, come e quando è successo che la comunicazione ha cambiato il nostro modo di vivere?
«Bisogna risalire a quando si è avuta la diffusione della comunicazione scritta. L'invenzione della stampa nell'età moderna coincide con l'inizio dell'età dell'individualismo. Il moltiplicarsi delle forme di media e il suo progressivo arricchimento quantitativo e di contenuti ha poi sviluppato un continuo incremento nel livello di autocoscienza. La generazione prima di noi aveva iniziato a prendere coscienza di sé attraverso Freud, ma ora che viviamo in un ambiente in cui i media sostituiscono la realtà con la sua rappresentazione è come se la società postmoderna ogni giorno modellasse la nostra identità».
Quale aspetto o mezzo di comunicazione ha l'effetto più intenso?
«Fino ad anni recenti, era la televisione perché con essa si instaura una relazione intima. La si guarda sempre, nella propria casa, anche in pigiama. Ora, i telefonini e Internet stanno rimpiazzando la Tv come la più "mediatizzante". Basta guardare la gente mentre telefona, manda messaggi. Con l'avvento dei blog, poi, si produce comunicazione, non la si utilizza solamente, si diventa completamente parte dei media».
Sembra però che così si perda ogni senso di ciò che sia privato...
«La privacy è morta e il suo crollo è direttamente legato alla mediatizzazione. Nel caso dei blog, tale erosione diventa condizi one di vita. Una delle espressioni più perfette è la Reality Tv, impensabile in passato. Le porto l'esempio del presidente Roosevelt che governò il Paese costretto su una sedia a rotelle dalla poliomelite; i media non si sarebbero mai sognati di menzionare la sua malattia. Più o meno come per le amanti del presidente John Kennedy. Guardi cosa ne se è fatto della relazione di Bill Clinton con Monica Lewinsky».
Lei sostiene che anche gli eroi sono scomparsi, eppure, ora che ognuno di noi può essere un personaggio noto - almeno per qualche minuto, o su Internet - non dovrebbe esserci che l'imbarazzo della scelta...
«Gli eroi e le star erano tali perché circondati da un'aura di mistero. Non si sapeva granché di loro, a livello personale, quindi venivano investiti di un'immagine che rifletteva ciò in cui l'uomo comune aveva bisogno di credere. Oggi, siamo nella cultura del pettegolezzo; manca il fattore del rispetto».
Questo fenomeno è una peculiarità della cultura americana?
«È predominante negli Stati Uniti, ma anche in Giappone e in altre parti del mondo. Per molti Paesi è solo questione di tempo; i contenuti saranno diversi, ma la mediatizzazione avverrà comunque».
E il gruppo demografico maggiormente influenzato?
«Certamente i giovani, prima di entrare a far parte del mondo del lavoro, per via del tempo libero che permette loro di essere più mediated, ma anche per il loro ruolo centrale nella società postmoderna. Poiché sono bombardati di messaggi, devono far fronte a costanti scelte e cercare così di individuare se stessi».
È per questa ragione che gli adolescenti di oggi sembrano crescere a un passo molto più lento rispetto alle generazioni precedenti e formano una propria famiglia molto più tardi?
«In parte sì, hanno bisogno di più tempo per cercare la propria direzione, ma il rallentamento coinvolge tutte le fasce d'età e ha a che fare con la presa di coscienza del proprio corpo e delle scelte relative. In passato la gente seguiva la strada che presume va dovesse essere seguita, ora ognuno ritiene di avere diritto a scegliere. La mediatizzazione ha incrementato la libertà e l'autocoscienza che deriva dalle scelte, ma ha anche eroso la famiglia».
Siamo coscienti della mediatizzazione e possiamo evadere da essa?
«Ne siamo consapevoli, ma esistono scelte individuali, modi per liberarsi. Si può prendere una pausa dalla comunicazione, spegnere il telefonino e non guardare la Tv, ma anche tali azioni diventano una scelta».
Cosa ci riserva il futuro?
«Si possono fare solo previsioni azzardate, considerando l'avanzamento della biotecnologia e il progresso nella chirurgia plastica. Non so quando, ma temo che arriveremo al post-umano».
«Avvenire» del 27 luglio 2006

L’arte fa bene anche se kitsch

di Gillo Dorfles

Qualche tempo fa un interessante convegno - promosso dalle Università di Udine e Trieste, e organizzato dalla Biblioteca di Udine e dal suo alacre direttore Romano Vecchiet - aveva scelto come tema da dibattere Il consumo dell’arte, vertendo soprattutto sullo spinoso problema del turismo culturale. Molti dei partecipanti, tuttavia, non si erano certo resi conto dell’ambiguità insita nello stesso tema proposto. Consumo dell’arte: inteso come utilizzazione, impiego, bisogno crescente della stessa? O non piuttosto come consumarsi, esaurirsi, entropizzarsi dell’arte in generale e in particolar modo di quella contemporanea? Come si vede il termine «consumo» presenta due connotazioni molto diverse che nel caso dell’arte meritano entrambe d’essere indagate; non solo, ma che entrano in gioco anche in tutto l’ambito della cultura e della società. Mi ero interessato a questo problema già a partire da un mio antico testo degli anni Sessanta, Simbolo comunicazione consumo, nel quale consideravo per l’appunto questi tre termini come una sorta di trinità socioculturale del nostro tempo. Ora ho visto con piacere riemergere alcuni di questi quesiti in un agile e denso volumetto di Mauro Ferraresi, La società del consumo. Lessico della postmodernità (Carocci), che lega i problemi del consumo soprattutto a quelli del postmoderno. Ovvia la parentela tra i due settori: giacché è proprio il rapido avvicendarsi dei periodi di modernità che ci insegna come - con la fine del secondo millennio - il consumo, in ogni campo (scientifico come estetico e prima di tutto tecnico e tecnologico) sia più rapido e incessante. Basterebbe sfogliare una rivista di moda, ma anche di architettura o di medicina, ma addirittura analizzare i termini impiegati nel linguaggio corrente per rendersene conto. Se, peraltro, questo tipo di consumo, in quanto obsolescenza linguistica, è tipico del momento che attraversiamo e forse persino preoccupante, quello che mi sembra meno negativo è il consumo in quanto «bisogno» di arte. Non credo, infatti, che esistano altre epoche storiche in cui si sia verificata una analoga «fame di arte». Magari di arte deteriore (quella tanto celebrata sotto l’etichetta di kitsch); eppure è indubbio che il processo di estetizzazione generalizzata: dalla pubblicità all’arredo urbano, dallo spot televisivo, allo sport è indiscutibilmente aumentato e aumenta di giorno in giorno; come accade del resto per l’uso della musica a tutti i livelli della sua «somministrazione» pubblica e privata, dal walkman alla radio, dalla canzonetta alla discoteca. Naturalmente la mediocrità di queste espressioni artistiche costituisce spesso l’altro lato della medaglia ed è proprio qui che s’annida il germe - o il virus - del postmoderno; fenomeno che ebbe già la sua istituzionalizzazione, per quanto si riferisce all’architettura, nel celebre testo di Charles Jencks (The Language of Post-Modern Architecture). Anche per Frederic Jameson - citato da Ferraresi - una delle caratteristiche della cultura del consumo che giustifica il sorgere del postmoderno è «il fatto che la realtà sembra trasformarsi in immagini» in maniera che non si riesce più a porre distinzioni nette tra realtà e finzione. «Le immagini producono una sorta di overlap sulla realtà» il che la riavvicina al concetto di simulacro avanzato già da Baudrillard. Ne deriva un trionfo anche in arte del simulacro e del pastiche, nonché una «protesizzazione del tempo» dovuta alla meccanizzazione e elettronizzazione di molte creazioni artistiche. Non ho citato che alcune delle analisi riassunte dall’autore e tralascio altresì di citare alcune delle ipotesi alquanto apocalittiche di Slavoj Zizek; mi piace, comunque, di ricordare almeno la posizione molto rigorosa di Giampaolo Fabris, che constata il sorgere di nuove categorie di consumatori che «sostituiscono al vecchio binomio reddito-prezzo i concetti di linguaggio e di comunicazione», non solo, ma che sottolinea la «continua promiscuità tra virtuale e reale sia nel tempo che nello spazio». Il che ha un’ovvia influenza sull’evoluzione o l’involuzione di molte forme artistiche recenti. Sicché, in definitiva dobbiamo certamente fare i conti col consumo che ci tiene strettamente avvinghiati e che molto spesso deforma anche ogni nostra volontà di reagire; ma dobbiamo, per contro, evitare di retrocedere verso antichi miti cercando invece di raggiungere una modernità - e non una postmodernità - che dia nuovo potere all’immaginazione e, perché no, alla «immaginazione al potere».
«Corriere della sera» del 27 luglio 2006