07 luglio 2006

Tutti i no di Mussolini a Pirandello: l’arcifascista non piaceva al Duce

Un carteggio ricostruisce i rapporti dello scrittore con la dittatura svelandone passioni e segreti
Gli lesinò i fondi. E per il Nobel avrebbe preferito d’Annunzio

di Annamaria Andreoli
Torvo e bilioso («come la seppia, vomito il nero che ho dentro»), incattivito dalla lunga attesa del successo, non ci sono dubbi sul pessimo carattere di Luigi Pirandello. Buone ragioni aveva pertanto Mussolini lamentandosene con Marta Abba, prim’attrice e amante putativa del cupo Maestro. Il quale subito s’inalberava: «"Brutto carattere" veramente questo Pirandello, che seguita a dir bene di Lui, a esaltarlo come un genio costruttore a cui l’Italia deve tutto mentre l’Italia a Pirandello taglia i viveri, e lo vessa di tasse, e rischia di farlo morir di fame. - Lasciamo andare! Io ho per me il bisogno di levare alto il suo mito; anche se Lui mi dice che ho "un brutto carattere"». È il 1932 e i rapporti con il Duce sono da tempo incrinati né mai giungeranno a comporsi, secondo quanto attesta ora il folto carteggio con il primogenito Stefano: Nel tempo della lontananza (1919-1936), (Edizioni dell’Istituto di storia del Teatro siciliano, pagine 375), per la cura meritoria di Sarah Zappulla Muscarà. E dire che Pirandello, entusiasta dello squadrismo manganellatore, tanto da anagrammare il suo nome con una P iscritta in un randello, non solo ha delineato, nel primo anniversario della Marcia su Roma, una stretta analogia tra la propria arte e la politica di Mussolini (La vita creata, nell’«Idea Nazionale» del 28 ottobre 1923), ma potrà vantare l’adesione al Partito fascista nel frangente più critico, all’indomani del delitto Matteotti: «Sento che per me questo è il momento propizio di dichiarare una fede nutrita e servita sempre in silenzio» («L’Impero», 19 settembre 1924). In calce al pronunciamento, la firma fiancheggiatrice dell’ormai illustre drammaturgo coincide non a caso con un abboccamento a palazzo Chigi che gli frutterà dure accuse d’opportunismo (Un uomo volgare, commenta «Il Mondo» di Amendola). Ricevuto dunque il 23 settembre 1924, Pirandello chiede di fondare e dirigere il Teatro di Stato che Mussolini promette, tenendolo però sulla corda e lesinando le risorse: occorrerebbero milioni e milioni e non le 250.000 lire concesse, per giunta, a rate. Tra speranze via via deluse e snervanti diatribe con il Sindacato fascista degli autori, Pirandello darà comunque vita, nel 1925, a un suo Teatro d’Arte nella veste di Capocomico. Impresa rovinosa, che in un triennio di febbrile attività gli costa fiumi di denaro, speso innanzitutto per mettere in luce Marta Abba. Prossimo ai sessanta lui, bellissima, milanese e appena venticinquenne lei, deflagra il dèmone meridiano che i figli cercano invano di contrastare. Scontato l’astio competitivo di Lietta, secondogenita di tre anni maggiore di Marta, sono numerose le iniziative di Stefano, factotum del padre, anche lui drammaturgo e narratore, volte a contenere, intanto, il pettegolezzo che invece il padre fomenta, disposto com’è a contraddire persino i suoi rigidi principi di regìa. Perché il nome di Marta giganteggia cubitale nei cartelloni e Stefano non tace: «difficilmente si può confutare chi dice che ciò significa la negazione dei criteri per cui tu hai fondato il Teatro d’Arte, cioè via gli attori dal palcoscenico che è dei personaggi» (28 ottobre 1926). Più sermoni che lettere scrive infatti il figlio-mentore. Ha del resto vissuto con il padre in rara simbiosi: una «due-tudine» - dice Luigi - dove i ruoli risultavano spesso scambiati e dove l’atroce messaggio paterno («La verità è che ci vendichiamo, scrivendo, d’esser nati») si calava nel viscerale familismo siciliano. La confidenza con Stefano era appunto anche fisica, e ora che il padre è lontano il figlio rimpiange le conversazioni del dopocena, quando «si dava aria alla mente, aria ai polmoni e pietose comodità al corpo» (10 giugno 1926). L’intrusione di Marta, figlia-musa-amante, ha rotto l’intima complicità famigliare. Pirandello vive con l’attrice in un cerchio incantato e compensa la castità con i gesti plateali: «gli sembra che se non dovesse aiutare la sig.na Abba a mettersi la pelliccia o non si precipitasse ad aprirle la porta quando entra ed esce da una stanza, ella dovrebbe morir di freddo o restar chiusa tutta la vita nella stanza medesima». Ma l’infatuazione si rivela salutare. Ripudiata Lietta, per le esose pretese dotali del genero cileno, Manuel Aguirre, Pirandello intende affrancarsi finalmente dal gravame degli altri due figli. Se Stefano scrive, Fausto, il minore, dipinge: entrambi vanno perciò mantenuti e il carico, alla lunga, diviene insostenibile. Esule volontario a Berlino, «fuori da questo porco paese che non sa dare altro che amarezze», illudendosi di concludere affari con il film sonoro (vorrebbe che si traducessero in immagini le sinfonie di Beethoven, intuizione geniale di cui farà un giorno tesoro Walt Disney), il padre ha aperto gli occhi: «i figli... non possono pretendere che io, a sessantadue anni, seguiti a lavorare giorno per giorno per mantenerli come quand’erano bambini e io avevo trent’anni; trent’anni, ora, li hanno loro» (19 marzo 1929). È insomma la solita adolescenza protratta fra le mura domestiche (anche d’Annunzio ha mantenuto i quattro figli fino alle soglie dei quarant’anni, con assegni mensili che, sprezzante, definiva «mestruali»). Meno male che l’esule, proprio nel 1929, entra a far parte dell’Accademia d’Italia con un congruo appannaggio. Solo nel 1934, due anni prima della morte, gli verrà invece conferito il Nobel. Pirandello lo attende dal 1922: annosa anticamera che sa di dovere tanto a Mussolini quanto a Grazia Deledda. La scrittrice sarda ha ottenuto il premio nel 1926, contrastando Ada Negri poi risarcita con la nomina all’Accademia, l’unica al femminile. Dietro le quinte, il Duce avrebbe desiderato il Nobel per d’Annunzio (non gli si perdona l’avventura di Fiume), e al Vate, che peraltro non cura né premi né accademie, ha elargito, giusto nel 1926, dieci milioni di lire con il pretesto della stampa dell’Opera Omnia. Solo il nostro siciliano resta a mani vuote; e intanto mal digerisce lo sgambetto dall’aborrita Deledda, sulla quale ha sparso non poco del suo nero di seppia. Bisogna arretrare al 1911, allorché molte chiacchiere corrono intorno a Suo marito, romanzo in cui Pirandello prende di mira quello che tutti - è vero - chiamano il «signor Deledda», al secolo Palmiro Madesani, da Mantova, che ha sottratto la scrittrice all’isola nativa radicandola, dopo le nozze, a Roma, dove smania per assicurarle il successo. Si copre di ridicolo? Non è il caso di infierire, ammonisce Treves, tanto più che chi la fa l’aspetti. Rifiuta di pubblicare il romanzo satirico con un’obiezione pungente: da editore equo qual è, egli non pubblicherà neppure Sua moglie, romanzo «bello, interessante», nel quale si allude «in modo evidente alla moglie di Lei, caro signor Pirandello»... Ancora di là da venire la casa di cura, altro che ridicolo potrebbe abbattersi sulla Portolano, dalla paralisi isterica alle gambe alla gelosia furibonda, che non risparmierà Lietta, accusata dalla madre d’incesto. Se è anche lei un’«onesta gallina», si vede che non manca di una sua forza aviaria, perché è la stessa Deledda a parare il colpo. Di qui le proteste misogine di chi s’intestardisce: «Non posso pe' brutti occhi della signora Deledda buttar via un’opera d’arte». Suo marito esce in sordina dall’editore Quattrini di Firenze e Pirandello avrà per sempre una nemica vendicativa, pronta a fare la spola tra Roma e Stoccolma per scongiurare, fin che può, il premio al protervo concorrente. E il Duce? Certo non esulta per il Nobel nel 1934, anno di massima tensione con Pirandello. Dopo aver assistito alla prima romana della Favola del figlio cambiato, Mussolini fa sequestrare l’opera ambientata in un bordello. E poi, quasi per castigarlo, a Pirandello viene imposta la regia della Figlia di Iorio, capolavoro di d’Annunzio, solennemente in scena (costumi e fondali di De Chirico) al Teatro Argentina di Roma il 10 ottobre. Infine, la stampa del regime dà notizie così stringate dei fasti pirandelliani di Stoccolma che gli antifascisti fuorusciti se ne meravigliano: «Giustizia e Libertà» intitola Il dispiacere del duce un articolo in proposito. Quanto a Pirandello, il suo credo fascista è irriducibile («la massa non ha una propria volontà») e lo sorprenderemo fra poco, nonostante tutto, in uno slancio di sincera ammirazione: «Ho visto una recente fotografia del Duce nell’atto di parlare a Eboli: m’è parso il Davide del Bernini» (a Stefano, da New York, 15 agosto 1935).

Una vita inquieta tra amori e onori
- Luigi Pirandello nasce a Girgenti (oggi Agrigento) nel 1867. Al dialetto della sua terra dedicherà la tesi di laurea, discussa a Bonn nel 1891. Tornato in Italia sposa Antonietta Portulano da cui avrà tre figli (Lietta, Stefano e Fausto)
- In seguito al rovescio economico della famiglia, Antonietta perde la salute mentale. Da allora Luigi si dedica all’insegnamento e alla scrittura di romanzi, novelle e drammi teatrali
- La fama mondiale arriva nel 1921, con «Sei personaggi in cerca d’autore». Nel ' 25 si inaugura il Teatro d’arte di Roma, di cui Pirandello sarà direttore e regista e a cui si lega la sua collaborazione con la giovane attrice Marta Abba (nella foto), sua compagna anche nella vita
- Accademico d’Italia dal 1929, nel ‘34 vince il Nobel per la letteratura. Muore a Roma nel 1936, mentre lavora al suo ultimo dramma, «I giganti della montagna».

Lui confessò: «Il regime è un tubo vuoto»
Questo intervento di Indro Montanelli uscì nella sua «Stanza» sul «Corriere della Sera» del 17 marzo 2001.
Conobbi Pirandello alla fine del ‘36, io rientravo dall’Etiopia. Una delle mie prime visite la feci a Massimo Bontempelli che, senza conoscermi, mi aveva molto aiutato nella pubblicazione del mio primo libro, «XX battaglione eritreo». Mi chiese di accompagnarlo all’Accademia d’Italia, di cui era membro. Ci trovammo per caso Pirandello, al quale Bontempelli mi presentò e col quale cominciammo a chiacchierare della situazione politica. Essendo rimasto lontano dall’Italia per due anni, non immaginavo che questa situazione fosse così scopertamente marcia da indurre i due interlocutori a una diagnosi tanto spietata: oltre tutto, eravamo in uno dei sacrari del regime, di cui entrambi facevano parte. A un certo punto mi presi la libertà d’intervenire per chiedere, un po' sprovvedutamente: «Ma allora questo regime come fa a stare in piedi?». Ricordo che Pirandello mi guardò quasi con tenerezza. Poi mi disse: «Semplicissimo, ragazzo mio: questo regime è un tubo vuoto, che ognuno può riempire di ciò che più gli aggrada. I vecchi conservatori ci vedono il ripristino dello Stato, i nazionalisti il culto della patria, i liberali l’ordine, i socialisti la corporazione, gli intellettuali la feluca e lo spadino dell’accademico, o alla peggio il sussidio del Minculpop... Un simile regime, chi può aver interesse a buttarlo giù?». Quando uscimmo, dissi a Bontempelli: «Non mi è parso molto entusiasta della situazione». «Ma sai - mi rispose - lui chiese la tessera del partito all’indomani del delitto Matteotti per dispetto e provocazione verso tutti coloro che in quel momento buttavano via tessera e distintivo pensando che il regime fosse finito...».
«Corriere della sera» del 30 giugno 2006

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