28 giugno 2006

Vivere secondo natura? (Andreoli 3)

Dalla fisica e in particolare dal percorso che essa ha compiuto nei tre secoli della sua indiscussa signoria, dal ’600 all’800, abbiamo visto come i termini «materia» e «realtà» siano profondamente cambiati, diventando sfuggenti rispetto alla possibilità di una conoscenza obiettiva. Quello che ora ci proponiamo è di vedere i riflessi di un simile sconvolgimento sul concetto di «natura», che da immutabile secondo la visione classica si è fatto labile ed enigmatico.
di Vittorino Andreoli
1 Il limite tra la fiction e il mondo concreto conduce il realismo in una crisi drammatica, che tende a impedire la difesa del vero dal falso - 2 C’è già un nome per definire questa condizione: digital life, una simil-vita, una sostituzione non più di oggetti, ma di mondi - 3 Si tratta di un’utopia ben diversa da quelle della letteratura: è una dimensione in cui si può realmente abitare - 4 Anche nella vita quotidiana si assiste ad un «uso» maggiore della falsità: il soggetto afferma ciò che appare più utile non più vero

Guardando alla fisica, in particolare al percorso che questa ha compiuto nei tre meravigliosi secoli della sua indiscussa signoria (in pratica, dal Seicento all’Ottocento) e poi alla successiva fase di decadenza (a partire dall’inizio del Novecento), s’è constatato come i termini "materia" e "realtà" siano profondamente cambiati. Il giro di boa lo si è avuto anzitutto quando l’attenzione è passata alle particelle atomiche e sub-atomiche, le quali sfuggono alla rilevazione dei nostri sensi, e di conseguenza quando si è constatato che "materia" e "realtà" – appunto – diventano sfuggenti rispetto alla possibilità di una conoscenza obiettiva: gli oggetti della fisica cioè sono una sorta di finzione rispetto alla realtà fuori di noi, quella vera ma non conoscibile.
La questione che ora ci poniamo è vedere i riflessi di un simile sconvolgimento a proposito del termine "natura". Il quale, almeno nell’uso comune, sta per realtà e designa l’intero universo quale estensione massima del mondo. Etimologicamente deriva da natus, ossia nascere e si lega alla creazione, alla creazione del mondo appunto: il mondo quale insieme di esseri creati.
La natura intesa come realtà si trova anche nella distinzione dei suoi tre "regni": animale, vegetale, minerale. I quali, nel loro insieme, costituiscono l’intero mondo naturale. Al che, lo scambio tra natura, mondo e universo, diventa ancora più forte.
Vediamo allora come è stata concepita la natura nella storia del pensiero e nella scienza, e quale mutamento abbia a sua volta subito alla fine dell’Ottocento, ossia nel momento in cui abbiamo collocato la crisi della scienza e l’inizio di quella caduta di princìpi che giunge come un’alluvione sul mondo contemporaneo e sul tempo presente.

LE CONCEZIONI SULLA NATURA. La concezione classica di natura, che risale alla Grecia antica, ne faceva un hortus conclausus, un fatto circoscritto e fisso che aveva una sua precisa configurazione. L’uomo non poteva che osservarla e studiarla, al la maniera di chi analizza un oggetto per scoprirne la struttura. L’anatomia della natura costituiva il riferimento a un mondo che l’uomo si era trovato davanti e che poteva soltanto descrivere e studiare, certamente non modificare.
Aristotele ne dà una prima ricca descrizione, e lo fa all’interno di un sistema in cui tutto è dato in un certo modo, in un unicum. Un sistema universale, simile a un orologio perfetto di cui ancora si ignorano i meccanismi di funzionamento. Il mondo è stato creato dagli dèi in una data forma e sostanza, e risponde ai criteri di perfezione, per cui nulla si può aggiungere.
La natura, dunque, è meccanicistica, nel senso che mostra tutto quanto è dato e previsto, ed essa può essere solo in quel modo, fissato dalla sua origine.
Questo assunto legherà, come in una fusione, il rapporto tra natura e materia e quindi tra natura e fisica; del resto le leggi di quest’ultima altro non sono che il modo di "comportarsi" della natura. Lo stesso «movimento è immanente in ciascun essere naturale, in virtù della propria essenza». Rispetto a ciò «risulta che la natura, nel suo senso primitivo e fondamentale, è l’essenza degli esseri che hanno in loro stessi, in quanto esseri, il principio del movimento. La materia in effetti prende il nome di naturale perché è suscettibile di ricevere questo principio; e il divenire della crescita è parte dei movimenti di questo principio. La natura in questo senso è il principio del movimento degli esseri naturali, immanente, sia come potenza che entelechìa [atto, forma compiuta]» (Aristotele, Metafisica, IV, I).
Il classicismo, pur ponendosi sotto molti aspetti come antitetico al cristianesimo, relativamente alla natura e al mondo appare sostenere una posizione creazionista, analoga a quella del Genesi che sostiene appunto la creazione di ogni forma di vita e di ogni elemento della natura.
La creazione da parte di Jahvé non può che essere perfetta e di conseguenza la natura si pone come qualche cosa di dat o e di inviolabile, un mondo appunto creato e intrinsecamente animato da una dinamica che è quella, irripetibile, che gli è stata impressa nell’atto stesso della creazione. Sotto questa angolatura non vi è una sostanziale differenza tra il mondo così come viene considerato dalla cultura greca e quello creato dal Dio dell’Antico Testamento.
Del resto, il pensiero religioso ebraico-cristiano che si riallaccia al Genesi parla di un mondo generato in maniera precisa e, dunque, come di un costrutto che si giustifica in quanto fatto e immutabile. Il mondo in entrambe queste visioni è un qualche cosa di perfetto e di universalmente stabile, che si può anche descrivere, come farà Plinio nella grandiosa sua Storia naturale.
È chiaro che secondo questa visione, l’uomo non può che essere aderente alla natura e ai suoi oggetti, sapendo che essa non può che rappresentare la perfezione. L’uomo è passivo di fronte a questo sistema che ha la firma del divino, e dunque – persino – dell’ignoramus, ossia del mistero.
Ci si può certo dedicare allo studio dell’anatomia del mondo, che va dal capitolo del cielo fino a quella della fabbrica corporis humani, in quanto si è animati da una tensione a conoscere in via definita sia il mondo sia la natura.
Per l’arte si tratterà di copiare la natura, di scoprire i suoi paradigmi, di svelarne i princìpi. Non a caso il Dio del Genesi si dedica anche ai dettagli, a indicare che proprio tutto è stato da lui fatto. «In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le tenebre ricoprivano l’abisso e lo spirito di Dio aleggiava sulle acque. Dio disse: "Sia la luce". E la luce fu … poi Dio disse: "Ci siano luci nel firmamento del cielo, per distinguere il giorno dalla notte; servano da segni per le stagioni, per i giorni e per gli anni e servano da luci nel firmamento del cielo per illuminare la terra." …. Dio disse: "Le acque che sono sotto il cielo, si raccolgano in un solo luogo e appaia l’asciutto. Le acque br ulichino di esseri viventi e uccelli volino sopra la terra, davanti al firmamento del cielo". Dio creò i grandi mostri marini e tutti gli esseri viventi che guizzano e brulicano nelle acque, secondo la loro specie, e tutti gli uccelli alati secondo la loro specie". … Dio disse ancora: "La terra produca germogli, erbe che producono seme e alberi da frutto, che facciano sulla terra frutto con il seme, ciascuno secondo la sua specie." Poi Iddio disse: "La terra produca esseri viventi secondo la loro specie: bestiame, rettili e bestie selvatiche secondo la loro specie"…. E Dio disse: "Facciamo l’uomo a nostra immagine, a nostra somiglianza…..» (1, 1-26).
Il racconto del Genesi insomma è dettagliato, e tende a richiamare ogni specie, e quindi tutto quanto fin dall’inizio è parte della natura. Essenziale è rilevare, a questo punto, che pure l’uomo è creatura, infatti fin dal Genesi non si giustifica una contrapposizione tra l’uomo medesimo e la natura, semmai l’uomo è a sua volta natura. In altre parole, secondo il racconto biblico, l’uomo si pone come un frammento del creato, certo ben caratterizzato e definito.
In tale cornice tuttavia, il Genesi non si allontana, nella sostanza, dalla cosmologia del mondo greco antico. Entro il cristianesimo però si opera un’importante aggiunta, che ha tutto il sapore di una distinzione rispetto al classicismo. Se al termine "natura" attribuiamo alle origini la configurazione dell’Eden, del Paradiso terrestre, quello in cui si trovarono i nostri progenitori, allora si può leggere il comportamento di Adamo e di Eva come qualcosa che va fuori della natura, e l’aver colto il frutto dell’Albero come un gesto che non la preserva, dal momento che è proibito. Se così è, ci sono operazioni che alterano la natura e dunque la devastano. Con quel gesto, infatti, la natura è stata contaminata e ora l’uomo può soltanto riconquistare l’Eden perduto.
Insomma, la natura è data, ma può essere coltivata dall’uomo secundum naturam, oppure alterata andando contra naturam. Ciò è possibile per la dottrina del libero arbitrio da una parte e dell’esistenza del male dall’altra, concezioni entrambe estranee al pensiero classico e invece costitutive del pensiero cristiano.
Ecco il passo sull’Eden (Genesi, 2, 8-15): «Poi il Signore Dio piantò un giardino in Eden, a oriente, e vi collocò l’uomo che aveva plasmato. Il Signore Dio fece germogliare dal suolo ogni sorta di alberi graditi alla vista e buoni da mangiare, tra cui l’albero della vita in mezzo al giardino e l’albero della conoscenza del bene e del male. Un fiume usciva da Eden per irrigare il giardino, poi di lì si divideva e formava quattro corsi.... Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse. Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti».
Si coglie qui un imperativo finalizzato a salvaguardare la natura: l’uomo deve fare certe cose mentre deve evitarne altre (il mangiare il frutto dell’Albero del bene e del male), il che potrebbe essere interpretato come distinzione netta tra ciò che si pone dentro la natura e ciò che va contro di essa. Si apre così la strada per ammettere che l’uomo, il quale è in sé parte della natura, può agire però contro di essa, e quindi al contempo contro se stesso. Si potrebbe aggiungere che l’uomo si trova ora nel mondo (valle di lacrime) che certo non è l’Eden, e che l’Eden può solo sperare di riconquistare.
LA NATURA E LE SCIENZE. Sia pure con le differenze cui abbiamo accennato, la concezione classica e quella cristiana ci presentano un mondo perfettamente costituito e precisamente delimitato, che l’uomo può semmai solo deturpare. Una concezione che domina a lungo, almeno fino al Rinascimento, o meglio fino a quel periodo del Rinascimento in cui a imporsi sarà la scienza, quando cioè l’occ hio di Galileo scruta il cielo attraverso le lenti di un cannocchiale, e si comincia a pensare al mondo come a un qualcosa di infinito, di illimitato. Termini che già stridono con la concezione di un luogo che si pensava concluso, sia pure circondato da un vuoto senza limiti.
Lo studio del cielo ben presto ci presenta un universo in espansione o, come alternativa, in contrazione, verso un nulla, un buco nero: in entrambi i casi però non ci viene più permesso di parlare di sistema immobile e immutabile.
L’universo cambia, con le stelle che muoiono, con le supernove che invece danno vita a nuovi sistemi, a nuovi mondi che prima non erano e adesso sono e altri che non sono più e prima esistevano. Vediamo persino la luce di stelle che ormai sono morte, benché appaiano a noi tuttora esistenti, in quanto il tempo che la loro luce impiega a raggiungere la terra perdura oltre la loro scomparsa: è una luce emessa dunque, che giunge soltanto ora, a distanza dalla loro morte.
All’interno di questi parametri, la natura oscilla tra il nulla e l’infinito, in una variabilità che sembra incommensurabile e in una dimensione che appare persino inimmaginabile.
Allo studio dell’infinitamente grande si accosta lo studio della fisica delle particelle, ossia dell’infinitamente piccolo, di una realtà invisibile ma costitutiva della materia e della "pietra", la quale però mostra in questa dimensione sub atomica una notevole vitalità e un continuo sconvolgimento, in un divenire che sembra follia.
La natura, insomma, diventa una variabile in continua mutazione, tanto che il sistema è differente, cioè altro, rispetto soltanto a un momento precedente. La staticità è solo finzione.
Persino il vuoto non è il luogo della mancanza, della stasi, ma diventa lo spazio entro cui si svolgono una serie di eventi di tale velocità da non essere visibili e dunque si tratta di un "pieno" che si muove in condizioni che sfuggono all’apparenza. Il vuoto è un pieno di eventi non percepibili poiché troppo rapidi e con mutazioni imprevedibili dentro una metamorfosi che supera l’immaginazione più sfrenata. In altre parole, è come osservare l’aria che ci circonda: un "inesistente" che, con un microscopio, mostra una grande vitalità, fatta di micro-organismi, particelle inerti che sono animate da vita e da movimento.
Il mondo, la natura, diventa insomma un indefinibile e un continuamente mutevole secondo apparenze che non sono nemmeno definibili, se non grossolanamente. Un mondo in cui si registrano catastrofi, movimenti tellurici e fenomeni talmente disastrosi da cancellare l’esistente per sostituirlo con scenari apocalittici.
A esprimere bene questa idea è Alexandre Koyré, filosofo e storico delle scienze (1892-1964), nel suo Du monde clos à l’univers infini (1957). Egli sostiene che non è più possibile utilizzare l’idea classica della natura, dal momento che l’universo è stato concepito come infinito e come tale non può nemmeno essere considerato immutabile.
Questa nuova concezione era già emersa tuttavia nella scienza del Seicento. «La rivoluzione galileiana del XVII secolo – dice – mi sembra portare alla distruzione del cosmo e della geometrizzazione dello spazio, e cioè alla distruzione di un mondo concepito come finito e ben ordinato, nel quale la struttura spaziale incarna una gerarchia di valori e di perfezioni... e la sostituzione a questo di un mondo indefinito e infinito che non comporta più alcuna gerarchia naturale e unica sulla base delle identità e delle leggi che lo regolano in tutte le sue parti... e ciò rigetta ogni considerazione basata sulle nozioni di valore, di perfezione, d’armonia, di senso o di forme e inoltre la svalorizzazione dell’Essere, il divorzio totale tra il mondo dei valori e il mondo dei fatti».
La natura inoltre, comunque sia concepita la sua origine, muta, ha una propria storia.
Charles Darwin con la sua teoria dell’evoluzionismo aveva mostrato come gli organismi viventi si pongano lungo un processo di trasforma zione. E dunque che individui e specie presentano dei caratteri evolutivi, i quali ora sono ma prima non erano, e quelli di oggi potranno domani essere differenti, mentre alcune specie scompaiono dallo scenario naturale e altre vi fanno invece ingresso.
Insomma, il mondo nella sua estensione e nelle sue varie suddivisioni (inclusa la parte inanimata) si evolve, con uscite di scena e mutazioni che includono nuovi esseri. Un mondo che non ha nulla di stabile, anzi ha come proprio principio la novità e l’instabilità, e persino l’imprevedibilità, dal momento che le mutazioni sono, per Darwin, legate al caso.
A dare un senso più ampio a questa concezione è stato Antoine Augustin Cournot (1801-1877), il quale ha sostenuto che la natura si modifica e anzi procede modificandosi, nel senso che un momento prima non era più quella che è adesso, e dunque non può neppure essere quella di milioni di anni fa.
Esiste cioè una natura con una sua storia, una legge interiore che esprime un impulso proprio e autonomo, che si realizza di per sé – è sufficiente che le condizioni esterne lo rendano possibile –, secondo una parabola irreversibile. L’irreversibilità è, appunto, il segnale che quella che consideriamo natura in questo momento non è la natura che esisteva prima.
L'UOMO PARTE DELLA NATURA. A questa visione, che già mette in crisi ogni concezione di stabilità e di oggettività, occorre aggiungere che l’uomo non può essere considerato un testimone estraneo alla natura, in quanto lui stesso ne è parte e subisce evoluzioni e sconvolgimenti per mutazioni che lo cambiano. Queste mutazioni rendono variabile proprio il soggetto che dovrebbe osservare una natura variabile. In altre parole, l’uomo è esso stesso natura e non può essere legittimato a valutare le modificazioni del mondo, poiché egli medesimo si modifica mentre il mondo cambia. È il paradosso di chi misura una superficie secondo un metro che si modifica nel tempo. Una fatica inutile che ricorda quella di Sisifo , o la maledizione di Tantalo.
È lo stesso concetto di obiettività a saltare e, con la fenomenologia, da Edmund Husserl in poi, si delinea una condizione secondo cui la realtà è vissuta dall’uomo, dunque non è valutata né misurata: il vissuto la cambia, la riduce a una dimensione tale che dipende persino dai sentimenti.
Non c’è dubbio alcuno infatti che uno stesso luogo appare diverso se visto in stato di paura e di angoscia oppure di serenità. Anzi, non appare, è diverso.
E dunque si tratta di un "qualcosa" che muta a seconda dell’uomo che lo vive, e non è possibile pensare a un dato mondo senza che sia vissuto da un uomo. Si tratterebbe, infatti, di una mera finzione, tanto che i fenomenologi parlano del mondo "qui e ora", vissuto da colui con cui esso è entrato in relazione. La misura del mondo è la relazione che si lega a quel particolare e irripetibile momento dell’esistenza.
Il sentimento è la capacità che l’uomo ha di legarsi ad un altro essere umano, e in questo legame l’altro acquista un significato del tutto nuovo, come se la sua qualità dipendesse dal sentimento dal quale viene investito. L’uomo che incontriamo risente del nostro stato d’animo, della modalità stessa in cui lo incontriamo, e non dipende affatto da una obiettività solo presunta. «Non indoviniamo le sensazioni, i sentimenti, insomma la vita intima dell’altro attraverso l’interpretazione del suo comportamento esteriore [potremmo dire attraverso la sua misura], ma vediamo lui direttamente» (riportato in J. Van Den Berg, Fenomenologia e psichiatria, Milano 1961, pag.120): mentre ci mescoliamo all’altro, diventiamo l’altro.
L’amore, come unione, è la maniera più completa di conoscenza, si potrebbe dire che nell’amore conosciamo l’altro mentre perdiamo la dimensione di noi stessi. Così tutto diventa soggettivo e una dimensione obiettiva, se pur pensabile, è comunque fuori dall’esperienza, dunque dall’essere in relazione con uomini e cose, in un momento dato e nello spazio preciso.
Husserl sostenne che la natura è un’entità di cui abbiamo "esperienza" avendone coscienza. L’uomo, avendo coscienza della natura, ne dà una dimensione, un significato, uno "status".
L’uomo è parte della natura, di quella natura che egli percepisce, e alla quale in qualche modo attribuisce esistenza in quanto ne ha conoscenza. Spingendo all’estremo questa posizione, si giunge a dire che la natura esiste in quanto l’individuo, attraverso la sua coscienza, la fa esistere.
Un ulteriore passo per dire che la natura esiste in quanto l’uomo esiste ed egli non è soltanto uno spettatore che si pone di fronte all’oggetto-natura, ma ne è invece parte così attiva in questo riconoscimento che in qualche modo è la sua stessa coscienza a permettere che la natura assuma una percezione vivente (La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, 1936, pubblicata solo nel 1954).
Ce n’è abbastanza per rendere impossibile l’impresa di definire la natura, a meno di convenzioni che saprebbero però di utilitarismo, e non certo di essenzialità e rigore scientifico. E allora cosa significa veramente "natura", e cosa "realtà"? Dove inizia il realismo e dove invece termina la soggettività? Come separare l’interiorità da una realtà che è sfuggente e indefinibile?
Era evidente che in questa sequenza si uscisse dalla scienza e si giungesse a filosofie. Dunque, ad un pensiero in cui si arriva a negare un mondo esterno e a riportare il tutto a livello di esperienza soggettiva. Esperienza che non garantisce né il realismo né il dato obiettivo, essa è semplicemente un vissuto.
L'IDOLATRIA PER LA NATURA. Da questa serie di visioni sulla natura, se ne ricava che il rispetto nei confronti della stessa non deve diventare idolatria, come dinanzi ad un oggetto immutabile. Quando usiamo espressioni come "contro natura" o "secondo natura", in realtà non teniamo conto che la natura è infinita, illimitata, che ha una storia mutevole e che essa esiste in quanto ne abbiamo espe rienza e coscienza. Pertanto, non si tratta nemmeno di un oggetto a noi esterno. Noi siamo all’interno della natura e dunque la sua modificabilità non solo è possibile, ma connaturata, trattandosi di una realtà in divenire.
Questa assunzione di consapevolezza mi appare straordinariamente positiva e dovrebbe renderci meno timorosi di fronte anche a quella ricerca che tenta di creare nuove specie ibridando i geni di quelle ora esistenti, allo scopo di migliorarne la resistenza, di incrementarne la qualità. Permangono tuttavia degli atteggiamenti nei quali l’azione dell’uomo diretta all’innovazione appare sacrilega, come appunto si rompesse un tabù, o si superasse un limite fatale. La ricerca sperimentale deve essere vissuta infatti nel quadro dell’imperativo che Ulisse ha scomodato per spronare i suoi: «Fatti non foste a vivere come bruti, ma per seguire virtute e conoscenza». E in questo senso non bisogna aver paura della ricerca, mai. Il problema semmai sta nell’uso delle scoperte, e nella loro applicazione. Cioè, è dentro l’uomo e non nella ricerca in sé, riguardando i limiti che si devono porre entro l’organizzazione della società, il senso che l’uomo ha in una visione dell’umano.
La ricerca esprime sostanzialmente la voglia di capire e di provare e qui si ferma, qui termina la scienza e incomincia l’uso della scoperta che infatti va inserita e ammessa sulla base di altri criteri. La scienza in sé non va mai condizionata, piuttosto si devono limitare gli usi delle scoperte. Non sono in discussione le vie per conoscere, le quali finiscono per essere a loro volta parte della natura, vie promosse dall’uomo che pure partecipa alla natura stessa. Si ambienta così una visione di natura non assoluta, né pagana, né idolatrata.
I risultati della ricerca devono entrare invece nell’etica sociale perché possono cambiare la storia. In altre parole, non è possibile fare ciò che si vuole né nei confronti dell’uomo-natura, né delle cose della natura, mentre occorre agire in base ad una visione dell’uomo e della società. Senza accusare la scienza, poiché essa di per sé non è "contro" né "secondo" natura, ma semplicemente un mezzo per conoscerla.
LA FINZIONE. L’applicazione della scienza rientra nel dominio vasto delle tecnologie che oggi hanno una potenza straordinaria, anche se assomigliano qualitativamente a quelle antiche, come l’invenzione della ruota, per fare solo un esempio. Certo, il livello di quest’ultima è molto diverso dalla tecnologia delle armi di distruzione e ancor più dalla tecnologia delle immagini, quale si è recentemente imposta e a cui vogliamo fare un cenno.
Le immagini delle televisioni, del cinematografo, di Internet possono persino sostituire il concreto-reale: la fiction come alternativa alla realtà fatta di oggetti e di relazioni umane.
Chi volesse definire che cos’è la natura alla luce dell’artificio possibile e nel suo grado più estremo, di una finzione che sembra effettivamente vera, si troverebbe davanti a ostacoli insormontabili. Esistono già generazioni di giovani che faticano a distinguere la realtà concreta da quella della fiction, dalla finzione che sa travestirsi di materia, di realtà.
Si possono provare emozioni di fronte a eventi inesistenti e falsi, e rimanere invece indifferenti dinanzi a situazioni in cui sono in campo uomini veri: il limite tra la fiction e il mondo concreto conduce in una crisi drammatica il realismo e rende impossibile ogni difesa del vero dal falso, del concreto dall’immaginario.
I videogiochi sono uno strumento in cui l’obiettivo è eliminare delle sagome umane e dove il punteggio dei killers è rapportato al numero di sagome che vengono eliminate in un dato tempo. Ma fuori da quel video, e posti in una piazza del mondo concreto, può succedere che si tenti di riproporre quella situazione, desiderando di eliminare stavolta umani veri, in carne e ossa, non immagini.
Si è imposto cioè un mondo del video in cui si vive meglio che in quello del concreto: il pr imo lo si può cancellare premendo il bottone di un telecomando, il secondo non muta facilmente e lo si sente addosso anche quando ha aspetti inaccettabili. Un personaggio sgradevole della fiction lo si elimina schiacciando un pulsante, ma non è concesso di fare così se si volesse eliminare una persona reale, in carne ed ossa, magari nelle vesti del padre o della madre. E allora si preferisce vivere nel mondo della finzione, abbandonando il mondo concreto e la sua consistenza.
C’è già un nome per definire questa condizione, questa vita possibile: digital life. Non più strumenti per vivere meglio, ma una simil-vita in sé completa. Una sostituzione cioè non di oggetti, ma di mondi.
Il che, se si vuole, richiama altri mondi utopici, la città del Sole di Campanella, Utopia, Thélème… con la differenza che ora queste non sono più localizzate dentro la testa, non sono il frutto di fantasia, ma hanno assunto una dimensione esistente sia pure dentro un video, dove si può stare per sempre, organizzando lì il proprio mondo premendo bottoni: digital life, appunto.
Analogamente si assiste ad un uso sempre maggiore della finzione quando non della falsità, così che il soggetto afferma ciò che appare più utile della verità.
In questo clima, certo portato all’estremo, come attaccarsi a una realtà che ormai sfugge, che non ha parametri secondo cui essere misurata, essendo caduto quello del vero e del falso? Come riferirsi al vero se ormai ognuno afferma il falso come fosse vero, e pure a se stesso racconta falsità sostituendola alla verità?
Ecco ripresentarsi la questione dei principi, la loro caduta, o la loro malattia, che poi è il tema di fondo del nostro viaggio.


idee & figure
Plinio il Vecchio

Nato a Como (23/24 d.C.) ed educato a Roma, ricoprì importanti funzioni pubbliche e divenne consigliere di Vespasiano e poi di Tito. Preposto alla flotta di capo Miseno, trovò la morte durante l'eruzione del Vesuvio nel 79.
La sua Naturalis Historia si compone di 37 libri ed è il risultato delle conoscenze che Plinio trasse dalla lettura di 2000 volumi di 100 autori diversi.
Una grandiosa summa latina di geografia, antropologia, zoologia, botanica, medicina, mineralogia e storia dell'arte.

Antoine Cournot
Matematico ed economista (1801-1877), con la sua opera Ricerche sui principi matematici della ricchezza (1838) ha profondamente influenzato le moderne teorie economiche. Cournot sviluppò un modello matematico, con due produttori rivali di prodotti omogenei che cercano di massimizzare i loro profitti, e dimostrò che l'equilibrio può essere determinato dalla intersezione di due curve di reazione.

Fiction
«Finzione» in inglese. Ormai termine consueto per indicare un prodotto cinematrografico o letterario basato su vicende di fantasia, o in cui la realtà sia deliberatamente artefatta.

Digital life
«Vita digitale» in inglese. È la vita investita dalle nuove tecnologie informatiche e proiettata su dimensioni immateriali o virtuali.


Il percorso
La morte di una civiltà non avviene per un intervento traumatico improvviso, che in genere ne è solo la causa apparente o comunque ultima in ordine cronologico: essa si consuma nello smarrimento dei fattori che hanno guidato quella civiltà, in un decadimento progressivo che può passare inosservato, sebbene abbia conseguenze di portata incalcolabile.
Questa la considerazione con cui Vittorino Andreoli inaugurava il suo viaggio su queste pagine, cinque settimane fa. Una considerazione che aveva e ha come oggetto quella che siamo soliti chiamare civiltà occidentale, la quale sta affrontando una fase di estrema delicatezza e drammaticità. Per Andreoli, più precisamente, l'uomo occidentale si trova nel mezzo di un guado: è diviso tra la fiducia cieca e ingenua in una tecnica a cui ha appaltato la sua felicità, e i timori per l'incontrollabilità di quello che gli sta attorno, per una società che pare sempre più "scardinata", caotica, che rigetta furiosamente quelli che sono stati storicamente i suoi principi strutturali. È un uomo che dietro la sicurezza di un relativo benessere materiale resta in ballo di forze invisibili, che lo guidano dove non vorrebbe andare se fosse davvero consapevole della destinazione.
Di fronte a questa situazione è necessario riconsiderare, riportare alla luce proprio quei «principi» che paiono essere saltati, in primo luogo per capire in profondità quello che sta avvenendo nella cultura odierna, in secondo luogo per vedere cosa può essere salvato o riattualizzato di un lascito che molti, troppi danno per irrimediabilmente perduto. Nell'analisi della malattia dei «principia», Andreoli è partito da una disamina della scienza moderna, della sua irresistibile ascesa dopo il Rinascimento e del suo declino nei secoli successivi, fino allo stallo in cui questa pare trovarsi da ormai un secolo. Della scienza lo psichiatra veronese ha messo a fuoco la parabola emblematica di uno dei suoi ambiti più "illustri", la fisica, e le ricadute che questa ha avuto nella capacità (o incapacità) che oggi abbiamo di "misurare" e conoscere il reale.
L'influenza della scienza nella trasformazione dei principi dell'Occidente è stata enorme. Un esempio viene dato in questa puntata, dove si analizza la metamorfosi di un concetto per secoli considerato immutabile: quello di «natura».



il film
La realtà come inganno: Matrix
Film di fantascienza del 1999, primo di una trilogia scritta e diretta dai fratelli Andy e Larry Wachowski.
La trama si svolge in un futuro indeterminato in cui l’umanità è controllata e sfruttata dalle macchine: queste fanno credere a donne e uomini di vivere liberamente, mentre in realtà li tengono imprigionati, coltivandoli per trarne l’energia necessaria alla propria sopravvivenza meccanica. Poche migliaia di umani sono veramente liberi: essi chiamano "Matrix" il sistema che imprigiona i loro simili, un insieme di impulsi elettrici inviati al cervello umano, convincendolo di vivere in un mondo che, in realtà, non esiste più da centinaia di anni.
All’interno di Matrix, quindi la gente vive senza accorgersi minimamente della sua vera condizione. Fra i pochi che si rendono conto che qualcosa non va, percependo una stranezza che non riescono a spiegare, c’è Thomas Anderson, un hacker statunitense conosciuto come "Neo".
Convinti che Neo sia "l’eletto" in grado di restituire la libertà al genere umano, un gruppo di resistenti lo contatta e lo pone a conoscenza della verità su Matrix.
Il film è noto a livello contenutistico per la densa simbologia gnostico-esoterica e, a livello tecnico, per un uso degli effetti speciali che miscela in modo suggestivo reale e virtuale. Tra questi effetti quello conosciuto come bullet time, che consente di vedere ogni momento in slow-motion mentre l’inquadratura sembra girare attorno alla scena alla velocità normale. Il bullet time è lo sviluppo di una vecchia tecnica fotografica conosciuta come fotografia time-slice (fetta di tempo), nella quale diverse macchine fotografiche sono disposte attorno ad un oggetto e vengono fatte scattare simultaneamente. Quando la sequenza degli scatti è vista come un filmato, lo spettatore vede le "fette" bidimensionali formare una scena tridimensionale. Un’esperienza analoga a quella di chi cammina attorno ad una statua osservandola ininterrottamente dalle diverse angolature. Alcune scene di Matrix implementano l’effetto "fetta di tempo" congelando totalmente personaggi e oggetti.


il libro
L’«esplosione» della cosmologia classica
Alexander Koyré (Taganrog 1892 - Parigi 1964), storico francese di origine russa, insegnò dal 1932 all'École pratique des hautes études di Parigi, poi (1941-1945) all'École libre des hautes études di New York. Dal 1955 fu membro dell'Institute for Advanced Studies di Princeton. Sotto l'influsso della fenomenologia di Edmund Husserl si dedicò alla storia della filosofia e del pensiero religioso medievale, spostando poi i suoi interessi verso l'astronomia, la fisica e la matematica. Rinnovò gli studi di storia della scienza proponendo una visione ricca e complessa del percorso scientifico, inteso come scontro dialettico tra concezioni globali del mondo e concetti scientifici specifici.
Un percorso articolato, che giunge a trovare ampie zone di contatto da un lato con la storia della filosofia, dall'altro con la storia della religione. Tra le sue opere maggiori vanno ricordati gli Studi galileiani e gli Studi newtoniani.
In questo libro pubblicato nel 1957 Koyré mette a confronto due visioni del mondo: quella medievale di ispirazione aristotelica, che propone un cosmo finito e ordinato secondo una gerarchia di perfezione e di valore, e quella ispirata dalla scienza moderna, che propone un universo indefinito o infinito, «unificato soltanto dall'identità delle sue leggi e delle sue componenti ultime e fondamentali». La sostituzione della nuova visione alla vecchia richiede «due azioni fondamentali e strettamente connesse»: «la distruzione del cosmo e la geometrizzazione dello spazio».
Le implicazioni dell'opera di Koyré si spingono fino alla problematizzazione delle forme contemporanee di vita, definite dal nesso tra scienza e tecnologia.

Alexandre Koyré, Dal mondo chiuso all’universo infinito, Feltrinelli, € 15,49, pp. 215
«Avvenire» del 5 marzo 2006

Nessun commento: