11 giugno 2006

Rete globale, solo un gioco da ricchi

«Anziché favorire l’uguaglianza, crea nuove oligarchie»
Un saggio denuncia che Internet si sta rivelando uno strumento sempre meno democratico
di Carlo Formenti
Un pregiudizio positivo in merito alla vocazione democratica di Internet accompagna la storia di questo medium. Già alla fine degli anni Sessanta Joseph C. R. Licklider - docente al Mit di Boston e fra i padri fondatori di Arpanet, «bisnonna» di Internet - parlava di agorà elettronica, immaginando un futuro in cui i «cittadini della rete» avrebbero partecipato attivamente alla elaborazione di programmi e decisioni politiche. Questa utopia, pur non trovando riscontro nell’evoluzione dei sistemi di governo, è sopravvissuta grazie alle prospettive di democratizzazione che i nuovi media hanno dischiuso in altri ambiti: dalle inedite opportunità di accesso a informazioni e conoscenze (basti pensare alla possibilità per studiosi e scienziati dei Paesi in via di sviluppo di consultare gli archivi dei più avanzati centri di ricerca), alla facoltà offerta a chiunque di «pubblicare» (a costi minimi) le proprie opinioni e renderle note all’intero pianeta (vedi i «giornali» online editati da milioni di blogger, che oggi competono con i media tradizionali); dai nuovi rapporti di forza che i consumatori hanno acquisito nei confronti delle imprese (potendo confrontare qualità e prezzi di una gamma pressoché illimitata di prodotti e servizi), alla possibilità per movimenti locali e gruppi di base di farsi sentire al di là del proprio ambito territoriale. Tutto vero, ma basta a giustificare una patente di democraticità «intrinseca»? L’evoluzione di Internet sta veramente spingendo il mondo verso una progressiva democratizzazione? Per rispondere positivamente occorrerebbe dare per scontato il superamento del «divario digitale» che tuttora impedisce alla stragrande maggioranza dell’umanità di accedere alle opportunità offerte dal mezzo. Gli ottimisti hanno sempre sostenuto che è questione di tempo: a mano a mano che i costi calano e l’uso delle tecnologie diviene più semplice, la situazione si normalizzerà finché Internet, come la Tv, sarà accessibile a tutti, o quasi. Del resto, l’incredibile velocità con cui il mezzo si è diffuso (impiegando 4 anni per raggiungere i 50 milioni di utenti, contro i 13 della Tv e i 75 del telefono) sembra confermare le loro tesi. Ma perché allora questa velocità sta rallentando (una recente ricerca globale su 12 Paesi ha calcolato che nel 2005 le connessioni sono cresciute del 5 per cento, contro il 20 del 2004), minacciando di assestarsi su un punto di saturazione molto più basso di quello della Tv (solo un abitante del pianeta su sei è oggi connesso)? Più che agli enormi divari di reddito fra Paesi (e fra i cittadini di uno stesso Paese), e all’assenza di infrastrutture che penalizza continenti come l’Africa, la risposta sembra rinviare al fatto che Internet non è un «prodotto» pronto per l’uso - come Tv e telefono - bensì un servizio che richiede certi livelli di competenza («alfabetizzazione digitale»). Partendo da questa e altre considerazioni, la sociologa Laura Sartori, nel libro Il divario digitale (Il Mulino, pp. 208, 12), critica la teoria della normalizzazione e mobilita un convincente repertorio di argomenti e dati empirici a sostegno di un’altra tesi: Internet non ha contribuito a ridurre le disuguaglianze, ma ne ha introdotte di nuove, che si sommano alle precedenti alimentando un circolo vizioso. Il divario digitale, scrive la Sartori, non è misurabile solo in termini di opportunità di accesso, ma anche e soprattutto in relazione agli usi differenti che vengono fatti del medium. Secondo questo approccio, i differenziali di reddito, età, genere, etnia e istruzione generano ulteriori divari, che non sembrano ridursi con il tempo. Chi può accedere a Internet anche da casa ne fa un uso più «ricco» di chi accede solo dal posto di lavoro; le differenze di genere spariscono in America ma permangono in Italia, mentre in alcuni Paesi (come la Svizzera) addirittura si aggravano; i più istruiti usano la Rete per acquisire conoscenze e informazioni, mentre i meno istruiti la usano per svago (in Italia il 70 per cento degli utenti usa Internet così, dato sconsolante ove si consideri che le statistiche evidenziano un rapporto di proporzionalità inversa fra navigazione a fini di svago e titolo di studio); gli anziani restano tagliati fuori dalla cultura digitale; la banda larga resta appannaggio degli strati a reddito più elevato; infine, laddove si procede a «forzare» l’uso di Internet senza dotare la gente di formazione adeguata, si innestano processi di «analfabetismo digitale di ritorno» (in America il 20 per cento delle persone che vivono in famiglie dotate di accesso non ne usufruiscono mai). Insomma: i differenziali di conoscenza (knowledge gap) fra utenti non si riducono e in alcuni casi aumentano. Ma se i più ricchi e acculturati vedono accrescersi ulteriormente il vantaggio competitivo nei confronti degli altri che accedono a Internet senza saperne o poterne sfruttare appieno le opportunità, il discorso sulla democraticità intrinseca del mezzo rischia di crollare. Partecipazione, accesso alla conoscenza, libertà di espressione premiano solo gli appartenenti a quella «classe creativa» che, secondo il sociologo americano Richard Florida, rappresenta meno di un terzo dei cittadini dei Paesi più ricchi. Quanto alla democrazia politica, non è per caso che un numero crescente di studiosi si interroga sulla «postdemocrazia» (vedi l’appena uscito Dopo la democrazia?, a cura di Derrick de Kerckhove e Antonio Tursi, Apogeo, pp. 200, 13), aprendo un nuovo fronte della guerra culturale fra liberisti e welfaristi: è giusto abbandonare Internet alle leggi del mercato, oppure occorre indirizzarla politicamente, per fare in modo che il diritto all’accesso (ma soprattutto all’istruzione necessaria per usufruirne) divenga universale?
Sempre sullo stesso numero del «Corriere della sera» risponde Giorgio De Rienzo
Ma il divario digitale si può ridurre
Internet di per sé è lo strumento più democratico che possa esistere nel nostro mondo per la diffusione non solo delle conoscenze, ma anche del dibattito culturale. Non può però, solo con la sua esistenza, modificare (o migliorare) la democrazia della società, se non in una prospettiva assai lontana. Non è necessaria un’analisi sociologica raffinata per rendere chiaro questo concetto. Basta il buon senso. Chi è più attrezzato tecnicamente e culturalmente può usufruire, anche oggi, dell’enorme potenziale offerto dalla rete, può comunicare (e confrontare) idee e ipotesi di lavoro o di ricerca, senza censure accademiche o editoriali: e questo è un grande passo avanti nella democrazia. Chi invece non ha capacità critiche e mezzi tecnici di scelta si trova di fronte a un mare di informazioni in cui gli è facile naufragare. Tutto entra in rete e tutto ci resta all’infinito e non può esistere uno «spazzino» che cancelli per esempio siti nati e morti in pochi mesi, né può essere stabilita, da un’ipotetica authority, una gerarchia di valori culturali. Ma è lecito nutrire qualche speranza. L’inserimento nelle scuole primarie di una seria alfabetizzazione informatica, lo svilupparsi lento ma progressivo di capacità critiche individuali di orientamento nei «navigatori», uno sforzo di intelligenza nell’organizzare con serietà i siti, possono portare, in tempi lunghi, a una maggiore democrazia effettiva. È esattamente quello che è accaduto per la Tv e che si accentuerà con la diffusione della televisione «satellitare» e «digitale». Solo un’abitudine di frequentazione via via più scaltrita permette di selezionare nel tempo il «buono» dalla «spazzatura». Fondamentale per Internet è che non si stabiliscano centri di potere (e di controllo) forti, come è accaduto per il piccolo schermo.
«Corriere della sera» del 7 giugno 2006

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