17 giugno 2006

Noi poeti, nuovi monaci

A colloquio con Derek Walcott, definito «l'Omero dei Caraibi», in Italia per ricevere il premio Grinzane Cavour
«Scrivere versi è innanzitutto un atto di gratitudine, direi quasi di preghiera. Il più contemporaneo? È sempre Dante»
di Bianca Garavelli
Ama scherzare Derek Walcott, appena arrivato a Torino fa una battuta sull'Italia: dice serio che non gli piace, perché le donne italiane sono brutte, ma poi subito svela lo scherzo con una risata, tanto più che si sta rivolgendo alla bella Paola Nobile del Premio Grinzane Cavour. Il premio Nobel 1992 Derek Walcott è oggi a Torino per ricevere un altro riconoscimento importante al suo essere da moltissimi anni un artista totale, reinventore del poema epico ai giorni nostri, ma anche drammaturgo e pittore (da suoi quadri sono tratte le immagini di copertina dei suoi libri tradotti per i tipi di Adelphi): il premio internazionale «Una vita per la letteratura» nell'ambito della poliedrica manifestazione diretta da Giuliano Soria, giunta ai venticinque anni di attività. Il suo aspetto un po' severo, il suo sguardo enigmatico, contrastano con questa capacità di divertirsi giocando con le parole, capacità che non ha mai perso da quando era un ragazzo di Saint Lucia, l'isola caraibica in cui è nato nel 1930, e in cui tuttora ama vivere. Perché, dichiara, non è molto diverso da quel ragazzo di diciotto, diciannove anni che aveva cominciato a scrivere poesia, è solo diventato un po' più vecchio, e orgoglioso della sua vocazione poetica. Anche su Dante non resiste alla tentazione di fare una battuta: gli chiedo se ha un rapporto privilegiato con la sua poesia, facendo riferimento al seminario di scrittura poetica che terrà in luglio a Sant'Elpidio a Mare, dove tratterà dell'innovazione metrica della terzina dantesca.«Dante non ha talento», risponde serissimo, ma poi ride e smentisce subito. «Penso che non ci sia un poeta che possa dire che Dante non è un grandissimo scrittore. Anzi, è un autore del ventesimo, persino del ventunesimo secolo. Alcuni grandi scrittori del passato che hanno il potere di ricordarne altri contemporanei. Dante per esempio mi ricorda Hemingway. Può sembrare assurdo dire una cosa del genere, ma la freschezza, la chiarezza, la colloquialità di Dante r ichiamano il miglior Hemingway. Il punto di forza di Dante è proprio questa sua immediatezza. E' certo che Dante è un modello per Hemingway, ma in un certo senso è vero anche il contrario, che Hemingway fu un modello per Dante. L'aspetto che di solito gli scrittori privilegiano quando analizzano altri scrittori è proprio il mestiere, gli strumenti del mestiere. Ed ecco perché faccio molta attenzione a questo aspetto, come potrei farlo per autori contemporanei, come Pound. Però, ripeto, è talmente immediato che considero anche Dante un contemporaneo».
Ma oggi, all'alba del terzo millennio, ha ancora senso parlare di «nuovo» e «vecchio» mondo?
«Sì, perché è una suddivisione reale: già solo il paesaggio e l'architettura sono diversi. Quando per esempio si viene in Italia, si nota subito che l'architettura evoca il passato. Io vengo dai Caraibi, dove ho la fortuna di vedere ogni giorno degli splendidi panorami ma non città, o metropoli, e quando vengo in Italia me ne accorgo sempre».
Pochi poeti contemporanei affrontano la poesia col suo respiro ampio, con la forma poema. A quale esigenza risponde questa scelta?
«La poesia è in grado di contenere grandi finzioni letterarie: in particolare nell'epoca vittoriana in Inghilterra si avevano grandi poemi narrativi. Poi non è più stato così. Se qualcosa va fuori moda in Europa o negli Stati Uniti non significa che per forza sia fuori moda in altre parti del mondo. Per esempio il romanzo è un'esperienza nuova nei Caraibi, e quindi si assiste a un'opera molto sperimentale in questo senso, che contiene anche elementi che in altre parti del mondo possono essere considerati fuori moda. L'errore che spesso molti commettono è quello di pensare che se qualcosa è fuori moda nei supposti centri della cultura come Parigi e Londra, e questo vale per la scrittura, ma anche per la pittura e per altre arti, lo stesso possa valere nelle altre parti del mondo. Per esempio, nelle Isole Fiji il poema lungo non è fuori moda. Quindi, secon do me non bisognerebbe essere influenzati da ciò che pensano a livello culturale le grandi metropoli del mondo. Per me scrivere poemi è il modo di esprimere il mio rapporto, la mia devozione privata per splendida natura caraibica e per la gente semplice che vive immersa in essa, non sottoposta alle seduzioni della tecnologia. Anche se rischia di essere travolta dal sistema attuale dei grandi alberghi internazionali, che ha lo stesso spirito di sfruttamento delle piantagioni del passato coloniale».
Ha detto che per lei scrivere poesia è come pregare. C'è una sua preghiera importante che è stata esaudita?
«Sì, la poesia è preghiera, ma ho sempre pensato che pregare non sia fare richieste a un potere divino. E' piuttosto esprimere gratitudine. E quando dico che la poesia è come una preghiera, intendo nel senso di accettazione, di gratitudine. La poesia non chiede niente a nessuno, e non implica una ricompensa per una vocazione che si ha. In un certo senso, per questo, il poeta è come un monaco. La migliore poesia è sempre stata una poesia di lode e di accettazione. Tutti i dolori, tutti i problemi che si possono avere passano in secondo piano rispetto alla più ampia comprensione che la poesia offre, e che non è personale. In essa confluisce ogni arte, senza distinzioni. Lo so in quanto sono anche pittore: fare poesia può dare molto alla pittura, ma non il contrario. Bisogna scrivere pensando di dipingere, non di spiegare qualcosa, con le parole».
«Avvenire» del 17 giugno 2006

1 commento:

Unknown ha detto...

Grazie per aver salvato questa intervista!
Per me è un bellissimo ricordo.
Adesso è ancora più preziosa.