02 giugno 2006

La stravagante brigata dei visionari senza regole

di Giuseppe Iannaccone
Alvaro, Savinio, Delfini, Landolfi...
Visionari e irregolari del nostro Novecento che scrissero in zona surrealismo&dintorni
Chi l’ha detto che «il monopolio della sensibilità magica in letteratura» vada assegnato solo «alle brume del Settentrione e alle fate morgane dell’Oriente»? Dove pare che la scrittura sia solo l’espressione della ragione e l’esercizio del controllo o il disegno della realtà, quando meno ce l’aspettiamo, finiamo invece sulle tracce dell’immaginazione, dello spirito e della surrealtà. Contrariamente a quanto pretende un consolidato luogo comune, la letteratura italiana, specie quella del Novecento, presenta un panorama quanto mai ricco di sorprese e anomalie sotto il segno del fantastico. Lo aveva già sottolineato uno dei critici più lucidi, Gianfranco Contini, introducendo una antologia dedicata all’Italia magica, in cui veniva allestito un primo censimento di irregolari, visionari o surrealisti, comici e fiabeschi, «umoristi e balordi». Con buona pace della tradizione accademica, incline a celebrare l’impegno di scrittori più rassicuranti o protetti dalla corazza dell’ideologia, esiste un intero repertorio di «inafferrabili» e di «scomodi» che hanno camuffato sotto le vesti del gioco o del sogno, personali e inquieti punti di vista sul mondo. E allora ecco che in una società letteraria come quella italiana in cui il richiamo dell’ordine ha spesso sedotto e condizionato, spuntano gruppi di avanguardie o eccezioni isolate e imprevedibili, che con linguaggi sperimentali e avventurosi si sono addentrati in territori stravaganti e inesplorati. Drappelli di metafisici o dadaisti, novecentisti e surreali affollano la galleria italiana del non senso o dell’irrazionale: da Aldo Palazzeschi ai De Chirico (Giorgio e il fratello Alberto Savinio), da Massimo Bontempelli a Dino Buzzati, da Tommaso Landolfi a Cesare Zavattini parte il corteo di personaggi senza volto, pazzi e manichini, vagabondi e idioti senza regole, mentre si inaugurano nuove estetiche, che abbandonano soggetti lirici e consolatori per farsi brutte, bizzarre, alogiche e paradossali. Accomunati dalla trasgressione e da una comune vocazione a scandagliare i meandri occulti dell’uomo contemporaneo e le zone di frontiera tra sogno e veglia, tragico e comico, immaginazione e razionalità, questi scrittori vengono ora passati in rassegna da Silvana Cirillo (Nei dintorni del surrealismo. Da Alvaro a Zavattini umoristi balordi e sognatori nella letteratura italiana del Novecento, Editori Riuniti, pagg. 270, euro 18), in un itinerario in cui le tenebre prendono il posto del sole, lo spirito quello della materia e l’iconoclasta Dioniso scalza l’armonico Apollo. A venir rappresentato è «l’irruzione dell’assurdo nella realtà quotidiana», come stabiliva il programma di uno scrittore relegato ora nella biblioteca dei non letti come Massimo Bontempelli, che teorizzava nel 1927 sulla sua rivista 900 la necessità di scoprire il «senso magico nella vita quotidiana degli uomini e delle cose».Ma tensioni metafisiche sono anche quelle dell’arte di Tommaso Landolfi, in cui il carattere misterioso e polivalente del reale è espresso dallo sfondo enigmatico e ambiguo di paesaggi lunari (La pietra lunare è, appunto, il titolo del suo primo romanzo, 1939) o dal teatro onirico messo in scena da un linguaggio che si fa spesso vuoto di senso come il mondo che vorrebbe rappresentare. È infatti proprio la lingua l’area in cui si muove la creatività dello scrittore fantastico italiano del Novecento: senza ricorrere necessariamente alle nere suggestioni del romanzo gotico o a diavoli, streghe e fantasmi, lo stile diventa un’avventura spericolata per cogliere l’inconscio e rivelare umori folli e scompigliare con immagini e forme atipiche ogni certezza definita. «L’inconscio è il mare del non dicibile, dell’espulso fuori dai confini del linguaggio, del rimosso in seguito ad antiche proibizioni; l’inconscio parla nei sogni, nel lapsus, nelle associazioni istantanee - attraverso parole prestate, simboli rubati, contrabbandi linguistici, finché la letteratura non riscatta questi territori e li annette al linguaggio della veglia»: così Italo Calvino, che indica le acque non vigilate solcate dai nostri eclettici turbatori dell’ordine: un Dino Buzzati, ad esempio, sempre alla ricerca di angosciose allegorie e deserti misteriosi raccontati con un’eleganza formale algida e sinistra o un Antonio Delfini che elude ogni ragionevole norma della sintassi per dissacrare e satireggiare con inaudita e divertita violenza verbale quella tranquilla e paludata «repubblica delle lettere» che lo ha condannato alla clandestinità. Forse è un destino comune a molti di questi scrittori che hanno pagato a caro prezzo una scelta, letteraria e tematica, in controtendenza rispetto alle più impermeabili ed edificanti tessiture realistiche. E fa bene la Cirillo a prendere in esame nel suo saggio anche la straordinaria esperienza di uno scrittore come Marcello Gallian, vero autore d’avanguardia, una specie di Céline italiano, costretto all’emarginazione nel secondo dopoguerra per la sua utopistica e viscerale adesione a un fascismo, più immaginario che reale, dalle tinte sovversive e antiborghesi. Esponente di punta dell’avanguardismo romano cresciuto negli ambienti del Teatro degli indipendenti di Anton Giulio Bragaglia, Gallian è uno dei protagonisti di una stagione singolarissima a cavallo tra anni Venti e Trenta, che proponeva intorno alla rivista L’Interplanetario di Libero De Libero il fiorire di nuovi stimoli culturali, a partire dalle sperimentazioni fantastiche di Corrado Alvaro, Leonardo Sinisgalli e del primo Moravia. Le opere migliori di Gallian, grafomane fino al disordine e allo sperpero, ne fanno un estremistico campione dell’espressionismo, un artefice surreale di un genere grottesco vibrante e allucinato con cui partire all’attacco di quello «spirito borghese» che rischiava di inquinare il sogno, coltivato fino alla fine, di un fascismo rivoluzionario e squadrista, popolare e socialista. La stessa trasgressività che emerge nei suoi racconti (che un’editoria attenta non dovrebbe perdere occasione di ripresentare), in cui emergono come figure centrali spostati e prostitute e come ambienti privilegiati bassifondi e periferie barocche, si esprime in un anarchismo furioso e intemperante e soprattutto nella difesa ad oltranza delle sue battaglie ideologiche a cui con ferma ostinazione continuò ad attribuire una paternità mussoliniana. Per questo, sebbene dal regime non avesse ottenuto che una sorda indifferenza, subì l’ostracismo del mondo culturale del dopoguerra, passato indenne attraverso il Ventennio, in molti casi grazie a un più redditizio, ma non meno compromesso silenzio. A Gallian non rimase che l’opportunità di scrivere su qualche giornale di tanto in tanto, sotto falso nome, mentre molti lo videro girovagare dalle parti della stazione Termini come venditore di sigarette di contrabbando. Fu il triste epilogo di chi, come disse lui stesso, aveva avuto la colpa di credere con troppa buona fede nel fascismo scambiando «un cerino» per «un sintomo di vulcano».
«Il Giornale» del 2 giugno 2006

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