20 giugno 2006

La parola scritta ci salverà

di Massimo Gramellini
In principio era il Verbo ed era una cosa seria. Poi arrivarono le intercettazioni. E il verbo, torturato smozzicato e declinato soltanto all’infinito, perse anche la maiuscola e si vergognò. Da creatrice del mondo, la voce si ridusse a gorgoglìo informe e sconnesso. E così la scialuppa del pensiero dovette tornare al vecchio approdo: la Parola Scritta, ultima opportunità offerta alla razza umana, prima di vederla scomparire in un vortice di rutti.
La neolingua orale del nuovo poeta di riferimento, il principe buzzurro, avanza volatile dentro la cornetta, libera da impacci stilistici e gabbie mentali. Non importa se a parlare sia un furbetto, un arbitro o un Savoia. Identico è l’uso di un vocabolario ridotto a cento parole, per lo più scurrili. Identica la frequenza con cui queste ultime si inframmettono nel discorso fino a trasformarlo in una sequela gratuita di «ca» «co» e «cu». Una povertà di linguaggio che si associa alla miseria dei concetti che tenta di esprimere, sorta di balbettio proveniente dal basso ventre: soldi sporchi, manovre losche, sesso mai allegro. Un quadro disarticolato ma davvero democratico, comune a potenti e meschini di ogni epoca. Se Cesare in Gallia avesse avuto un cellulare, avrebbe chiamato un amico per dirgli in quale conto versare il tesoro di Vercingetorige, raccontargli di quanto era zozzone Marcantonio, raccomandargli una vestale. Ma per sua e nostra fortuna, la sera il proconsole non ricaricava la scheda, ma la penna e scriveva il «De bello gallico».
Ecco, nell’anarchia esistenziale in cui ci agitiamo, così ben espressa dal procedere sconnesso della neolingua parlata, la parola scritta rappresenta ancora una ringhiera di regole minime a cui appoggiarsi per non cadere. I pizzini di Provenzano lo hanno fatto sembrare meno ferino di quanto avrebbe rivelato una intercettazione telefonica. E il Ricucci degli sms romantici alla moglie era molto più sorvegliato nella prosa di quello che in viva voce assomigliava al monologo di Alberto Sordi sul «maccarone». Forse anche Moggi e Vittorio Emanuele quando scrivono, ammesso che lo abbiano mai fatto in vita loro, sono meno desolanti e monotoni di quando parlano. Scrivere impone dei limiti e costringe ad assumere uno stile: magari minimo, magari finto, magari esageratamente rigido o insopportabilmente complicato. Ma uno stile. Qualcosa che permetta a chi legge di avere la sensazione di trovarsi davanti a un essere umano, non a un eruttatore di frasi fatte. Scrivere è intimità autentica, perciò aprire una lettera attenta alla privacy molto più che ascoltare una telefonata. La parola scritta riordina le idee, persino a chi non le ha. Non tutto è perduto, allora. Spegniamo la bocca, un segno ci salverà.
« La Stampa » del 20 giugno 2006

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