19 giugno 2006

Il Male, favola nera creata dall' Occidente

di Aurelio Lepre
Dalla Shoah all' 11 settembre: le grandi tragedie non sono universali
Il sociologo Jeffrey C. Alexander affronta i problemi posti dal terrorismo islamico
A distanza di quasi due millenni da quando il profeta persiano Mani immaginò la vita dell'universo come una perpetua lotta tra il Bene e il Male, l' argomento continua ad affascinare. Anche gli storici si sono lasciati talvolta tentare dal conflitto tra il re della Luce e il re delle Tenebre, fino a vedere un signore delle Tenebre nel piccolo borghese Adolf Hitler. Come si vede, è una tentazione pericolosa, dalla quale farebbero bene a tenersi lontano. Per chi voglia mantenersi sul terreno della laicità, il Male storico non esiste: ci sono soltanto progetti malvagi che producono azioni malvagie, da studiare nella loro concretezza, evitando generalizzazioni. Tuttavia pure queste possono essere utili, se restano saldamente ancorate ai fatti. E anche gli storici devono tener conto dei progressi delle altre scienze sociali, seguendo l'invito che Marc Bloch e Lucien Febvre rivolgevano ai loro colleghi già nel 1929. Tanto più quando si tratta di studiare argomenti di grande attualità, come la memoria dell' Olocausto o il terrorismo. Merita perciò molta attenzione la lettura dell' opera di Jeffrey C. Alexander La costruzione del male (Il Mulino), che analizza la questione del male nella storia servendosi degli strumenti offerti dalla sociologica culturale. Rinvio all' introduzione di Marco Santoro per ulteriori informazioni su questa disciplina e passo subito alle due principali domande alle quali Alexander cerca di dare una risposta scientifica. Perché l'Olocausto è diventato l'immagine del Male? E perché oggi quell'immagine è rappresentata dal terrorismo? Alexander sviluppa una sofisticata analisi dei due modi più diffusi di rappresentazione del male. C'è la «narrazione illuministica» nell' ambito di una concezione progressista e ottimistica della storia, secondo cui al trionfo del male seguirà la vittoria del bene, che lo rimuoverà anche a prezzo di una guerra, se conclusa da una «pace giusta». E c' è la «narrazione tragica», che non focalizza l' attenzione su un futuro tentativo di inversione o miglioramento (cioè sul progresso, nella tradizione laica, o sulla redenzione, nella tradizione giudaico-cristiana), ma rappresenta il male come qualcosa di terribile e inesplicabile. La narrazione tragica consente soltanto la catarsi, che ci esorta a identificarci con i protagonisti della vicenda: se ciò non avviene, non possiamo essere traumatizzati da un' esperienza che non abbiamo vissuto. L' identificazione richiede che le «strutture culturali inconsce» esistenti la rendano possibile. Se l' Occidente ha potuto in gran parte sentire come un proprio trauma l' Olocausto, è difficile che ciò possa avvenire anche per la Cina o per l' India ed è impossibile che avvenga per i Paesi musulmani. Le «strutture culturali» però (e qui sarebbe utile anche per i sociologi culturali cercare più stretti rapporti con gli storici) sono il prodotto di specifici fatti, come ha sostenuto uno dei più illustri discepoli di Bloch e Febvre, Jacques Le Goff, quando ha definito la storia delle mentalità il luogo dove convergono l' individuale e il collettivo, l' inconscio e l' intenzionale, sfidando la tradizionale diffidenza dei suoi colleghi per l' inconscio, ma studiandolo come l' espressione di processi storicamente individuabili. Così anche un tema sfuggente come «l' inconscio» ha avuto diritto di cittadinanza nella storiografia. Il trauma può essere individuale o collettivo: quest' ultimo si verifica quando i membri di una collettività sentono di essere stati colpiti da un evento terribile, che ha segnato per sempre le loro memorie e ha mutato anche la loro identità, per il presente e per il futuro. Ma qui si pone un problema: attraverso quali modi un avvenimento riguardante una sola collettività (gli ebrei per l' Olocausto o la società americana per l' attacco alle Due Torri) è diventato un trauma per l' intero Occidente? Alexander osserva che i confini del «noi» si espandono se si pensa che la sofferenza degli altri può diventare, nei fatti, anche la nostra. Ma perché l' Olocausto è diventato il simbolo del Male se è stato un genocidio unico, irripetibile e se i più recenti genocidi non si sono verificati nelle società democratiche occidentali, dove nessuno crede di poter essere colpito in futuro dalle sofferenze e dai massacri vissuti dagli hutu o dai cambogiani? Possiamo spiegarlo ricorrendo alla «narrazione tragica» che ne hanno fatto i libri e il cinema, da Anna Frank a Steven Spielberg, provocando il necessario coinvolgimento sentimentale. Il Male storico, dunque, non esiste di per sé, ma soltanto se viene percepito come tale, vale a dire se viene costruito. Per il terrorismo il discorso è diverso: se terrà fede alle sue premesse ideologiche, colpirà l'intero Occidente, considerato nel suo complesso il regno del male. La narrazione tragica dell'11 settembre non è necessaria, basta credere ai proclami di Al Qaeda. Ma c'è stata ugualmente e la drammatizzazione ha assunto caratteri di grande ambiguità, perché la performance del terrore di massa è stata sceneggiata da Osama bin Laden, e con qualche successo, presso il pubblico arabo-islamico. La lotta tra il Bene e il Male investe l' immaginario collettivo in forme sconosciute in passato e che potrebbero avere anche un peso decisivo.
Il libro di Jeffrey C. Alexander «La costruzione del male. Dall' Olocausto all' 11 settembre» (pp. 239, 15) è edito dal Mulino
Corriere della sera del 15 giugno 2006

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