01 giugno 2006

Com’è difficile prendere a calci anche la poesia

di Roberto Mussapi
Poco tempo fa, parlando di un importante libro di cucina legato al costume, stigmatizzavo luoghi comuni come «la cucina è poesia», privi di un significato e rivelanti, a mio parere, scarsa conoscenza dell’una e dell’altro. Altrettanto dicasi per un titolo di facile effetto di un volume antologico e saggistico, Il calcio è poesia (Il Melangolo, a cura di Luigi Surdich e Alberto Brambilla). Tutto ciò che ci piace può essere facilmente definito poesia: l’amore è poesia, la mamma è poesia, il mare è poesia, Megan Gale è poesia, il vino è poesia, la canna è poesia, a seconda, naturalmente, dei gusti.
Il calcio contiene elementi potenzialmente ispiratori di poesia, a partire dalla sua origine, pressoché ignota ma probabilmente archetipica: quella sfera che vola su un campo, lanciata con i piedi, con la parte dell’uomo più a contatto con la terra, che deve perforare una meta o essere protetta da un’altra rete, quella sfera volante fu rappresentata nell’arte di civiltà precolombiane, dove apparve anticamente il calcio, come una sorta di danza cosmica, una rappresentazione inerente la realtà celeste. Nato motu proprio in Inghilterra, il football mantiene le caratteristiche del gioco rituale precolombiano: è uno sport in cui si deve attaccare e difendere, avanzare e conservare, si svolge tra i due estremi del portiere, il custode, e il centravanti, il cavaliere, pare la metafora del movimento della memoria poetica secondo la definizione del grande romantico Shelley: «Una memoria proiettata in avanti». Il fatto che abbia ispirato poesia, in versi e in prosa, deriva forse anche da questa sua natura, oltre dal fatto di rappresentare, come scriveva Thomas Eliot, una delle poche forme di spettacolo rituale di massa nel ventesimo secolo.
Le opere di Soriano, o di Saba, per citare due autori importanti, si accentrano esplicitamente su altri elementi, ma credo che questa realtà archetipica del calcio come azione complessa, partita rituale su un campo dove due schieramenti si scontrano, dovrebbe essere la molla segreta di gran parte della letteratura che si ispira a questo sport. Il rischio è che la poesia sul calcio si riduca a una poesia di tifosi, l’equivalente della poesia degli innamorati rispetto a quella d’amore, di Catullo o Cavalcanti o Keats. Il calcio è uno sport collettivo, dove una comunità si sente rappresentata, come accade dell’equipaggio di una nave, non un’avventura individuale come l’alpinismo o il salto in alto. È naturale che un Paese si entusiasmi per la sua nazionale che vince i Mondiali, molto meno per un alpinista connazionale che raggiunge una vetta inviolata. Eppure il calcio, tranne alcuni casi, soprattutto nel genere narrativo (Soriano, Arpino), e le celebri poesie di Umberto Saba, non ha trovato una sua epica, e nemmeno una sua vera tradizione letteraria, limitandosi a una frequentazione a volte fascinosa e penetrante (Raboni, Buffoni) ma episodica.
Lo spirito drammaturgico della partita, in simultaneità di tempo, sempre domenica, stessa ora, generò invece una sorta di epica orale, un vero e proprio genere letterario popolare nell’età d’oro delle radiocronache di Tutto il calcio minuto per minuto, dove la voce leggendaria di Sandro Ciotti, oltre a introdurre la «-ing form» inglese nella lingua italiana (la usano solo Fenoglio nei suoi romanzi e il sottoscritto in poesia), tipo «l’accorrente Cabrini», e altre tra cui quella di Enrico Ameri, crearono una sorta di appuntamento narrativo domenicale, su eventi in atto.
L’antologia ora edita dal Melangolo, oltre alla banalità del titolo, registra la fragilità del genere, ospitando troppi autori improvvisati (insomma una nazionale piena di brocchi) accanto a quelli importanti come Saba e altri di cui già si conosceva bene l’opera. Versi imbarazzanti: «dopo il tuo gol, dopo le mie lacrime» (Acitelli), «Io nel giubbotto sportivo/ e tu con un qualche trussardi» (Bertoni), «tra le bandiere dai tanti colori/ cerchiati di blu» (Testa), in una generale immagine del calcio non come agonistico rituale, spettacolo ed evento della polis, ma parte della piccola vita quotidiana.
Si potrebbe obbiettare che non è colpa di nessuno se quando nacque il football Pindaro e Omero erano già morti da un pezzo. È vero, ma quello spirito, grazie ai loro capolavori, permane tra noi poveri modesti discendenti: pensiamo al poemetto di Loretto Rafanelli, dedicato al grande Toro, in cui gloria e tragedia si fondono nella vicenda di Superga: Le voci del Filadelfia (I quaderni del battello ebbro, pagg. 54, euro 6). Uscito da pochissimo, è un forte e denso breve poema di pathos sommessamente epico: la memoria delle gesta dello squadrone confligge con lo schianto, gli undici escono dal buio, grazie alla memoria messa in scena dal poeta, sfidano, ancora oggi, la morte e il nulla. Qui il calcio trova una sua possibile tradizione, legata al poema, originariamente anch’esso sport collettivo.
« Il giornale » del 1 giugno 2006

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